Lucia Calamaro sceglie il contesto della Biennale Teatro per far debuttare il suo ultimo lavoro, “Nostalgia di Dio”, di cui è regista e autrice.
In una scena lattea, pulita e bianchissima, siamo catapultati in un contesto borghese, dove due uomini giocano a tennis sotto lo sguardo annoiato di una donna. Arriva Simona, che sbaragliando subito la quarta parete inizia il suo monologo rivolta al pubblico.
La struttura dello spettacolo si delinea con un giusto respiro, un ritmo lento sostenuto da un umorismo sottile e scattante.
Francesco e Cecilia sono stati sposati e hanno due figli: un grande affetto li lega ancora, ma mentre lui anela a recuperare il rapporto che avevano, lei rincorre la sua indipendenza. Alfredo è amico storico di Francesco, e in gioventù ha avuto una liaison con Cecilia, prima di assumere l’abito talare. Simona è la migliore amica di Francesco, single, insegnante, desidera ardentemente un figlio.
Le vicende vere e proprie che animano lo spettacolo sono poche, piccole, quotidiane, come è tipico della drammaturgia della Calamaro. Dal campo da tennis si passa ad una cena in casa e poi ad una gita notturna per le chiese di Roma. Non succede quasi nulla in questi 140 minuti di durata: un po’ troppi, in effetti, soprattutto in un secondo tempo che non riesce a sostenere l’eco del primo e insabbia un po’ nel torpore la platea.
Tuttavia l’aspetto interessante, in questa dimensione espansa, è che il lavoro acquista il ritmo della realtà. In questa realistica rarefazione dei tempi, a turno ogni personaggio si distacca dal quartetto e, rivolto al pubblico, racconta la propria crisi. Il termine ‘personaggio’ è improprio, perché gli attori sembrano molto di più portare sulla scena sé stessi, persone comuni con problemi comuni; l’autrice non dà loro dei superflui nomi di invenzione, ma lascia quelli di battesimo.
Tutti e quattro hanno il proprio tormento interiore, legato al passato che ha fallito, come Francesco (Spaziani), o ad un presente che rischia di diventare passato troppo in fretta, come Simona (Senzacqua). Alfredo (Angelici) sente il peso delle responsabilità imposte dal suo ruolo, Cecilia (Di Giuli) ricerca un’affermazione che si sbriciola piano piano, presa com’è nel ruolo di madre single. Soprattutto le due attrici riescono ad affrontare il testo con grande disinvoltura, misuratissime nella loro ponderata cadenza romana, nella recitazione contenuta e quotidiana.
Nella banalità della trama, l’intelligenza dell’autrice si rivela in un sottile e segreto meccanismo che soggiace al testo. La Calamaro cuce le nevrosi e le depressioni dei protagonisti alla dinamica relazionale che insiste tra i quattro, così che i monologhi sono legati non tanto al dipanarsi dei fatti – quasi assenti – ma si intrecciano con i sentimenti che lega il parlante agli altri tre.
In quella che potremmo definire una famiglia non tradizionale, nonostante le avversità e le separazioni, ci si è sempre per gli altri, si litiga, si grida, ci si lascia anche, ma si ama e si ritorna.
È sicuramente il tema del nostos, del ritorno, della casa intesa come famiglia, centro saldo dei propri affetti, di cui l’autrice dichiara di aver voluto parlare in questa pièce. E ci riesce con efficacia.
Quello che lascia un po’ perplessi è il discorso su Dio, che benché dichiarato fin dal titolo, viene solo accennato. L’immagine di un Dio bambino, che crea il mondo con l’onnipotenza dell’infanzia, ma anche con ingenuità, un Dio che non risponde alle nostre preghiere perché letteralmente ancora infante, è nuova, dolce e malinconica. Ma questo spunto interessantissimo sembra venga solo sfiorato in superficie; la questione di Dio rintocca, sì, di protagonista in protagonista, ma una materia così complessa non viene mai attraversata fino in fondo.
C’è da considerare che è pur sempre una prima assoluta in un luogo di apertura e sperimentazione, e rassicurano in tal senso le parole della Calamaro che afferma: “Credo che da questo titolo, per una volta, il contenuto del lavoro sia facilmente estrapolabile. La storia o trama, invece, siccome mi cambia ogni giorno fra le mani, me la riservo”. E ancora: “Nostalgia di casa. Questo potrebbe essere l’altro titolo di questo spettacolo, in quanto per me, la casa sono gli affetti, e gli affetti sono l’unica dimensione rimasta che mi rapporti al sacro”.
Nostalgia di Diotesto e regia Lucia Calamaro
con Alfredo Angelici, Cecilia Di Giuli, Francesco Spaziani, Simona Senzacqua
luci Gianni Staropoli
scene e costumi Lucia Calamaro
assistente alla regia Diego Maiello
disegno dell’angelo Luca Privitera
produzione Teatro Stabile dell’Umbria, Teatro Metastasio di Prato
in collaborazione con Dialoghi – Residenze delle arti performative a Villa Manin 2018_2020
durata: 2h 20′
applausi del pubblico: 2’ 20’’
Visto a Venezia, Teatro Goldoni, il 27 luglio 2019
Prima assoluta