Il Gabbiano ‘straordinario’ del Teatro Nazionale Serbo

Il Gabbiano (photo: Ilaria Costanzo)|Il Gabbiano (photo: Ilaria Costanzo)|Il Gabbiano (photo: Ilaria Costanzo)
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Il Gabbiano (photo: Ilaria Costanzo)
Il Gabbiano (photo: Ilaria Costanzo)
Non è facile restituire in poche righe tutta l’immensa materia – costellata di sensazioni, spunti e impressioni – che contraddistingue la visione di un lavoro come “Il gabbiano” del Teatro Nazionale Serbo, in prima nazionale a Fabbrica Europa.

Si tratta di una messinscena che supera le sette ore e nel suo dipanarsi incrocia percorsi e spazi eterogenei, messinscene e linguaggi, parti recitate, parti cantate e voci fuori campo, in una sorta di ‘satura lanx’.
Tanto che si esce da quest’esperienza storditi, stanchi eppure entusiasti per aver condiviso un cammino così impervio, sempre però vivo e incalzante, coi suoi punti di forza e alcuni di debolezza.

Ma rimane, in tutto questo essere frastornati, ammaliati, assorti e assorbiti dalla messinscena, la gioia per aver assistito ad un fatto di teatro raro e, forse, unico nel suo genere, che meriterebbe una riflessione più ampia e approfondita rispetto a queste poche righe. Così mi avvalgo dell’aggettivo “straordinario” nel suo etimo: extraordinarius, composto di extra «fuori» e ordo -dĭnis «ordine» (ordinarius «ordinario») a sottolineare un’esperienza unica nel suo genere.

Per questa prima nazionale si parlava di “maratona” e di “straordinario allestimento” e da questo punto di vista le aspettative non vengono deluse, anzi addirittura superate.
Per la natura dell’allestimento e delle scelte registiche si entra in contatto con uno stupefacente gruppo di attori, e più che assistere ad un percorso, siamo noi stessi protagonisti, partecipiamo in prima persona, perché anche il pubblico viene ad essere coinvolto nel rito di questa lunghissima messinscena che, col passare delle ore, crea un effetto magnetizzante e coinvolgente, conducendoci per mano fino all’ultimo atto di un Cechov rispettato e tradito, “ortodosso” e iconoclasta, ma che coglie nel segno, anche se con alcune soluzioni forse un po’ troppo facili, solo apparentemente provocatorie e scontate, nel senso del “già visto”.

Che dire del regista Tomi Janežič? Osannato dalla critica, felicemente definito da Jana Pavlic “eccezionale interprete del metodo Stanislavskij”, nel suo lavoro offre rimandi – talvolta filologici – alla storia del teatro, in una summa teatrale degna di un manuale.
Ecco allora un possibile dilemma: applaudire la sua maestria, parteggiare per il suo “genio”, oppure schierarsi dalla parte di chi vede, pur riconoscendo il grande talento, la sua mano nella messinscena talvolta ridondante, ingombrante, un po’ leziosa e didattica, lasciando che a volte sia il pathos a prendere il sopravvento e sovraccaricare l’impianto drammaturgico?

Il Gabbiano (photo: Ilaria Costanzo)
Il Gabbiano (photo: Ilaria Costanzo)
Forse non tutto, nello spettacolo, può allora essere reputato necessario, e in alcune parti si potrebbe tenere una stessa linea, mantenere un impianto più definito, anziché voler attraversare troppi territori drammaturgici, sperimentare troppi approcci recitativi (vedi le parti cantate nel IV atto, con tanto di tastiera e chitarra elettrica in scena) e parlare troppe “lingue”, poiché, anche se non è questo il caso, la torre di Babele, racconta la Genesi, non fu portata a termine.

I quattro atti dell’opera originale vengono ad essere nella messinscena del Teatro Nazionale Serbo quattro spettacoli differenti, ciascuno con l’intenzione di portare in superficie – secondo le parole della drammaturga Katja Legin – gli altri temi, rispetto alla pièce, che “si sono cristallizzati” durante il lungo processo (di circa sedici mesi) che ha visto coinvolti trenta elementi tra attori e tecnici.

Così, nel primo atto, ci si sofferma attorno al teatro e all’arte con “Ecco qua il teatro”; fantasie, sogni e innamoramento esplodono nel secondo, “Lago incantato”; il senso del possesso permea il terzo, “Qualcuno sta arrivando. Qualcuno se ne sta andando”; fino all’ultimo, “Questa è una notte selvaggia”, dove protagonista è il fato.

Quattro parti ma un unicum intenso, potente, che parte con regista e attori in fase di prova, una perfomance che si sviluppa in un ‘hic et nunc’ davanti agli occhi dello spettatore, e che mai troverà la sua conclusione, come sottolinea in una delle sue prime incursioni in diretta il regista.
In abiti di prova e col copione in mano, alla presenza del regista, ha inizio il lavoro.

L’avvio è lento, da subito si coglie la densità della materia, ci si concentra sulla voce nelle cuffie, che ci accompagnerà per tutte le sette ore, traducendo in simultanea le voci dei protagonisti. Poi di colpo, senza che ce ne rendiamo conto, ci troviamo sulle rive del fatidico lago nella tenuta di Sorin, in attesa che Nina reciti il monologo scritto da Treplev, in un’atmosfera innervata di sentimenti e gelosie, sogni e ambizioni, rapporti familiari forti e crudeli, lo scontro tra le ambizioni dei giovani e il freddo cinismo egoista degli adulti.

Un avvio lento, in cui però a poco a poco si è avvinghiati nella storia, ci si lascia permeare dai rapporti tra i personaggi con un’unica nota stonata: i numerosi interventi del regista che pone l’accento per “sottolineare” cosa sia e cosa non sia Cechov, quasi fosse egli il portatore di un verbo per pochi adepti, raro predicatore in una terra di disattenti, quasi a voler guidare lo spettatore in una interpretazione determinata.

Questa presenza caratterizza anche il secondo atto, che si conclude con una sorta di rito di gruppo catartico/orgiastico, in un movimento circolare degli attori in una sorta di “trance zoomorfica”, in un’esplosione di tinte e vernici sulle pareti di plastica trasparente che, come un cubo, isolano la scena dal pubblico, seduto tutto attorno alla scena quadrata, con una Nina nuda che si lancia tra il pubblico, e di colpo sembra di tornare a messinscene di alcuni decenni fa.

Il terzo atto, “Qualcuno sta arrivando. Qualcuno se ne sta andando”, sembra essere il più riuscito.
Da dietro la parete di fondo ci giungono le voci dei protagonisti, mentre gli attori, in primo piano, seduti nei loro esotici costumi lungo il fondale, inizialmente intenti nella loro indifferenza a mangiare una fetta di torta, sono a tratti illuminati da un piazzato quando nel testo si fa riferimento a loro.

E’ una calma apparente, che lascia spazio poi all’emergere di azioni sceniche sulle quali l’atto è incentrato, in una selezione attenta ed efficace, a mettere in risalto i delicati equilibri, tra violenza – emerge il rapporto incestuoso tra il figlio e la madre -, improvvisa calma, pulsione e lotta, che si nascondono nel quadrilatero di istinti e implacabili sentimenti che vanno a unire i quattro protagonisti: Nina, Treplev, Trigorin e Arkadina.

Emergono momenti intensi, riusciti: con pochi elementi scenici si riesce a dire molto (la scena del bendaggio di Treplev feritosi nel tentativo di suicidio) e in questo affiora il grande talento di Tomi Janežič.
La scena conclusiva, che si sviluppa a partire da una immaginaria foto di gruppo per poi proseguire al rallentatore, rimane impressa come una delle più belle.

L’atto conclusivo è caratterizzato da un’atmosfera autunnale, secondo la volontà esplicita del regista, e la scenografia si affida a pochi piazzati e a molte candele, che luccicano come lucciole tra le numerose sedie in scena. L’effetto è notevole.
E’ un atto questo, che ci parla del fato e delle conseguenze delle decisioni, caratterizzato da una scelta netta dal punto di vista drammaturgico.

A differenza del testo di Cechov si sceglie quale finale la scena dell’ultimo incontro tra Nina e Treplev, a cui nell’originale segue il suicidio del giovane, che qui invece non viene a rivestire l’importanza che ha nel testo, ma si oltrepassa velocemente, con l’intento di puntare tutto sul famoso dialogo in cui Nina racconta gli ultimi due anni della sua vita, l’amore frustrato per Trigorin, il figlio morto, la sua ritrovata vocazione di attrice.

Il Gabbiano (photo: Ilaria Costanzo)
Il Gabbiano (photo: Ilaria Costanzo)
La scena conclusiva del dialogo tra Treplev e Nina è affidata a un video, montato con spezzoni a colori tratti dalle prove in teatro, che si alternano a un cortometraggio in bianco e nero girato in un interno. Il tutto è proiettato alla presenza degli attori, che assistono come comuni spettatori.
Quando il video termina, abbandonano la scena e Treplev, che ha seguito la proiezione in piedi in disparte, lentamente spegne tutte le candele, fino allo “stop” definitivo dettato dal regista.

Alcuni di questi spezzoni sono esaustivi per capire a pieno il metodo lavorativo del regista, il suo rapporto con gli attori e l’intensità dei due giovani protagonisti. Ma crea anche i presupposti per una domanda che ci ha accompagnato per gran parte del lavoro: semplificandola al massimo, è necessario che una battuta debba essere per forza recitata piangendo affinché risulti vera? La verità passa attraverso l’estremo pathos sempre e comunque?

Ma se molto si è parlato del regista, è doveroso sottolineare anche, per intensità, forza, precisione e talento (ciascuno con le sue precipue caratteristiche), la grande prova degli attori, che offrono una messinscena di qualità e quantità, quasi a testimoniare la “sacralità” del loro essere attori.
Anche l’impianto scenografico è degno di menzione: è raro imbattersi in un lavoro pensato e attuato così in grande.
Ecco, c’è davvero un senso del sacro e una sorta di rispetto nei confronti del teatro e degli spettatori in questo lavoro, cosa che non si incontra spesso sui palcoscenici.

IL GABBIANO
da Anton Cechov
direzione, regia, allestimento e luci Tomi Janežič
drammaturgia: Katja Legin
costumi: Marina Sremac
assistente costumi: Snežana Horvat
compositore: Isidora Žebeljan
suono: Tomaž Grom
musicisti: Aleksandar Ružičić (flauti), Borislav Čičovački (oboe)
assistente allestimento: Željko Piškorić
assistente alla regia: Dušan Mamula e Dimitrije Dinić
regia ed editing del film: Tomi Janežič
collaborazione all’editing: Brane Klašnja
riprese: Srđan Đurić
suono: Uroš Stojnić
tecnici luci: Miroslav Čeman, Marko Radanović
poster design: Tomi Janežič, Katja Legin, Srđan Đurić
produttore: Elizabeta Fabri
sound master: Dušan Jovanović
registrazione musiche: Zoran Marinković
cast: Jasna Đuričić, Filip Đurić, Dušan Jakišić, Milica Janevski, Deneš Debrei, Draginja Voganjac, Ivana Vuković, Boris Liješević, Boris Isaković, Dimitrije Dinić, Jovan Živanović, Milica Trifunović, Tijana Marković Dušan Mamula

durata: 7h 8′ (intervalli compresi)
applausi del pubblico: 3′ 50”

Visto a Firenze, FABBRICA EUROPA, il 10 maggio 2014
Prima nazionale


 

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