Come è accaduto tante volte nei nostri giorni umbri al Festival dei 2Mondi, anche stavolta i luoghi incidono negli occhi un solco che il teatro scava poi più a fondo.
Figuriamoci poi se a scavare è un maestro come Luca Ronconi, che con “Pornografia” incontra ancora una volta la forma-romanzo (era già successo in “Demoni” e con il “Pasticciaccio” di Gadda), sottoponendola a un’alchemica reazione con il linguaggio della scena.
Non si tratta infatti «di una sceneggiatura del testo, ma di una trasposizione, di una lettura analitica del romanzo attraverso gli strumenti che sono quelli del teatro, a partire dagli attori».
Il nucleo narrativo del romanzo del polacco Witold Gombrowicz sta nella perversa fantasia erotica dei due amici Witold e Federico (Riccardo Bini e Paolo Pierobon), due uomini (im)maturi che, in casa di amici, si trovano a proiettare il loro voyeurismo su una coppia di giovani, Enrichetta e Carlo, fra cui in realtà non c’è alcuna attrazione (l’ingenuità psicologica dei due ragazzi è anzi sottolineata da una recitazione particolarmente antirealistica).
Più i due giovani si comportano con vitale noncuranza, più i due uomini cercano di avvinghiarli nelle loro trame, favorendo circostanze da cui possa nascere qualche barbaglio d’erotismo. Le vicende si sviluppano secondo un inesorabile parossismo, intrecciandosi con l’invasione tedesca della Seconda Guerra Mondiale (il testo è ambientato a Varsavia) e con la resistenza polacca.
Ronconi opta per una scenografia descrittiva. Le quinte laterali si aprono e chiudono, facendo funzionare i binari degli elementi scenici semoventi: un divano che diventerà anche sedili di un treno, il modello di una carrozza, una poltrona, un altare. I cambi di scena avvengono secondo un continuum perfetto, in cui le pause non diventano mai vuoti, mentre le luci gettano sul palco colori da pittura oleografica.
Il principio fondamentale di “Pornografia” è la non coincidenza fra io narrante e io del personaggio-attore. A spiegarlo sembra molto più difficile di quanto avvenga in realtà, grazie all’eccezionale lavoro di Ronconi e del suo ensemble (composto anche da Ivan Alovisio, Loris Fabiani, Davide Fumagalli, Lucia Marinsalta, Michele Nani, Franca Penone, Valentina Picello, Francesco Rossini): nella recitazione degli attori si alternano gli interventi in prima persona; quelli in terza persona con soggetto il proprio stesso personaggio; quelli in terza persona con soggetto gli altri personaggi; infine, molto più raramente, gli interventi in prima persona che si rivelano in realtà essere i pensieri di un altro personaggio.
Su queste quattro possibilità si gioca la complessa partitura drammaturgica di “Pornografia”. La quinta, che rimane una scelta poco chiara proprio perché unico elemento non organico al quadro, è una voce off che interviene un paio di volte.
Ronconi dispone con abile e fluida varietà i momenti in cui la narrazione orale precede o accompagna l’azione scenica, e quelli in cui è invece il gesto materiale ad anticipare l’evoluzione narrativa. Il tocco del maestro si vede nella capacità di guidare lo sviluppo della drammaturgia, tenendosi sempre lontani dal rischio contestuale della descrittività: la ritmicità con cui avvengono queste sfasature temporali evita che possa stabilizzarsi una gerarchia fra i due linguaggi, e anzi ne realizza un terzo livello superiore.
La narrazione del teatro ha inoltre una sua non riducibile tendenza iperbolica, che gli impedisce di essere fagocitata dal romanzo: ad esempio, quando Gombrowicz descrive, durante una messa, l’immobilità delle persone dietro i banchi, gli attori si gettano tutti a terra come fossero morti.
Il piano teatrale prende il sopravvento su quello narrativo anche quando Witold e Federico chiedono con malizia ad Enrichetta di allacciare la scarpa di Carlo, e il gesto avviene nella più totale calma e assenza d’attrazione: alla realtà narrativa si giustappone quella dell’immaginazione; così i due giovani diventano fantocci nelle mani dei vecchi, venendo agiti in pose erotiche per dare soddisfazione ai loro desideri inesauditi.
L’operazione che Ronconi compie sul romanzo può far pensare agli studi di Wolfgang Iser, uno degli elaboratori della teoria della ricezione: gli atti della finzione, nell’opera d’arte, non si pongono come esclusivo contenuto di realtà, e non c’è dunque nei segni linguistici della letteratura l’ambizione di costruire una realtà propria, chiusa e conclusa; la realtà della scrittura trascende quella storica perché ha dei margini di indeterminatezza, degli spazi vuoti in cui interviene l’immaginazione del lettore, sopperendo con la fantasia alle informazioni non date dall’autore. In questo modo la realtà artistica esiste come realtà dialogica, mondo liquido in continua evoluzione, di cui il fruitore è sostanziale coautore.
Quando Ronconi decide di mimare la forma romanzo attraverso il teatro, decide proprio di mettere in scena questo processo di creazione condivisa, questo pensiero in azione: ecco perché se Federico mima una passeggiata attorno alla villa degli amici – mentre alle sue spalle dei pannelli mobili evocano il movimento tra gli alberi – e Witold ne racconta il tragitto in terza persona, disegnando su una lavagna le linee e le curve che sta provando a descrivere a parole, il pubblico ride. Perché gli schemi inconsci, secondo cui la nostra fantasia ci aiuta a raffigurare le immagini descritte dal testo, hanno all’improvviso un corpo, una forma.
Certo, se stesse tutto soltanto così, saremmo alle prese con un vezzo semiologico, con una tiritera in salsa Eco. Per non parlare del rischio di esaurire gli spazi per la partecipazione del pubblico proprio con l’eccessiva saturazione dei segni scenici. Ma è invece esattamente qua che si vede lo scarto del genio di Ronconi. Per almeno due motivi.
Il primo: i segni scenici non sono stabili, ma si smagliano, si contraddicono, s’inseguono. Il rapporto tra la narrazione del romanzo e la sua resa teatrale non si dà come mero gioco sui referenti, ma si situa piuttosto nella complessità di un diaframma, dove l’inespresso della scrittura diventa materiale interessante per l’elaborazione scenica. Ad un certo punto, secondo la linea narrativa del romanzo, Witold e Federico, camminando uno verso l’altro, si fermano poco prima di incontrarsi. E questo i due attori pronunciano con le labbra. Sul palco, invece, succede che i due si scontrano, rimbalzando all’indietro. Ronconi apre queste fessure e in esse libera gli spazi per l’analisi e l’intervento del pubblico, nonché quelli per la parodia.
La parodia, appunto: ecco il secondo motivo. I due amici sono affascinati dall’irriducibilità di Carlo ed Enrichetta agli schemi in cui vorrebbero inserirli, e tanto emerge l’ingenua renitenza dei due giovani, quanto più la voluttà di Witold e Federico li spinge a cercarne il dominio. Sono i due uomini a sentire il bisogno di evadere dalle convenzioni sociali; incapaci di vivere serenamente la loro ribellione, la proiettano sul presunto ‘affaire’ tra Carlo ed Enrichetta, che delle convenzioni non si sono in realtà mai preoccupati troppo, visto che entrambi sono molto smaliziati nelle esperienze sessuali.
Facendo un passo in più, ci sembra che Ronconi – con l’aiuto inestimabile di Gombrowicz e con le armi della parodia – sia riuscito a tracciare un ritratto duro e lucido del modello di intellettuale dominante negli ultimi vent’anni italiani. Un intellettuale che, grazie ad esempio alla demenza berlusconiana dei bunga bunga, può additare in quelle pacchiane evidenze una malattia che in realtà appesta anche sé stesso, forse ancor più in profondità. Incapace di accettare una realtà che gli sfugge dalle mani e che non è né migliore né peggiore della sua, ma semplicemente più giovane, questo intellettuale preferisce consacrarsi ai nichilismi più artefatti: cerca e denuncia il caos lì dove c’è soltanto la semplicità di una realtà in mutamento, come sono in mutamento le vite giovani di Carlo ed Enrichetta.
E quando questo intellettuale si accorge che il cambiamento lo trascende, e trascende molte delle sue senili categorie, comincia a non distinguere più il rancore personale dai mali effettivi della società: comincia a vedere perversioni anche nei pochi angoli in cui le perversioni non ci sarebbero. Ma, soprattutto, esprime il suo vampirismo come fanno Witold e Federico: incapaci di amare una realtà che non si lascia plasmare dai loro bisogni, non contemplano l’alternativa di mettere in discussione sé stessi.
Molto meglio trascinare tutto a fondo, nelle placche di un immobilismo sempre più sicuro e sempre più colpevole.
PORNOGRAFIA
di Witold Gombrowicz
traduzione Vera Verdiani
scene Marco Rossi
luci Pamela Cantatore
regia Luca Ronconi
regista assistente Riccardo Massai
assistente alla regia Fulvio Accogli
assistente scenografa Giulia Breno
con Riccardo Bini, Paolo Pierobon
e con Ivan Alovisio, Loris Fabiani, Davide Fumagalli, Lucia Marinsalta, Michele Nani, Franca Penone, Valentina Picello, Francesco Rossini
foto Luigi Laselva
direttore di scena Angelo Ferro
primo attrezzista Mario Gaiaschi
attrezzista Valentina Lepore
primo macchinista Matteo Benini
macchinisti Luigi Baggini, Marco Premoli, Alessio Rongione
elettricista Matteo Testa
fonico Luca Mazzucco
sarta Marisa Cosenza
truccatrice Nicole Tomaini
delegate di produzione Claudia Di Giacomo, Maria Zinno
per il Piccolo Teatro di Milano Ufficio Produzione e Organizzazione Eugenia Torresani
un progetto a cura di Roberta Carlotto
una coproduzione Centro Teatrale Santacristina, Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
in collaborazione con Spoleto56 Festival dei 2 Mondi
si ringraziano il Comune di Bevagna, il Teatro Stabile dell’Umbria e l’Associazione Teatro Francesco Torti
Visto a Spoleto, Teatro Francesco Torti di Bevagna, il 12 luglio 2013
Prima nazionale
non ho visto lo spettacolo, ne’ potro’ vederlo, ne’ amo particolarmente ronconi, ma leggere le recensioni di michele ortore e’ sempre un piacere, di per se’. affiora semplicita’, immediatezza, comprensibilita’, spessore, fantasia, vulnerabilita’; una capacita di rendere il proprio pensiero senza pensare a costruzioni sintattiche creative e artificiose. cosicche’ il lettore non si ritrova a “guardare” una recensione attraverso la quarta parete dello schermo del computer ma a dialogare con il critico. io, sull’autobus, mentre leggevo parlavo da solo.
Grazie per la risposta e la segnalazione. Io a questo proposito ti invito a vedere uno spettacolo che si intitola l’America Dentro che è stato presente a Contemporanea, il festival di Prato ed è in giro per l’Italia. Mi è sembrato in linea con queste nuove, semplici e rare forze che cercano, come fili d’erba, di sbucare da sotto l’immobile colata di cemento che va da Ronconi a (ahimè) Castellucci.
Mi scuso con l’autore del commento precedente se rispondo soltanto ora. In effetti sempre di più – e il nostro essere concordi magari è significativo – si comincia a sentire in giro la consapevolezza che la semplicità, come ben dici, «sta lentamente ridiventando vera e reale». Io credo che alcune compagnie (poche) abbiano già introiettato quella che speriamo davvero sia una nuova fase: penso, ad esempio, a Carrozzeria Orfeo. Ma, anche senza considerare Ferraris e il nuovo realismo, è ancora più interessante che una sensibilità del genere si stia affacciando in arti parallele: ti segnalo, se può interessare, un progetto che si chiama “In realtà, la poesia”, di cui sono coordinatore, e di cui il nome dice già tutto. A presto!
Bella recensione. Anch’io ho trovato nella modalità e nell’esposizione dello spettacolo l’autobiografia di un vampiresco intellettuale che vorrebbe abbattere uno dopo l’altro i presunti capisaldi della società (Dio, Patria, Arte e Lavoro) usando consumare le linfe vitali dei due giovani in questione, ma senza riuscire a comprendere i cambiamenti che intanto gli si dipanano intorno. Lo snobismo più arroccato, lo strutturalismo più distaccato è ormai arma spuntata contro una semplicità che sta lentamente ridiventando vera e reale. Gli spazi d’azione si restringono e la soddisfazione del nostro intellettuale è ormai solo ostentata ma mai più viva.