“La regina resta” di Papillon Teatro: il tempo dell’attesa tra carcere e palco

La regina resta (ph: Errico Tommasi)
La regina resta (ph: Errico Tommasi)

La regia di Lorenzo Paladini guida i detenuti del carcere di Lecce in un percorso drammaturgico attorno alla parola “madre”

26 luglio 2022. Una giornata assolata dell’estate salentina. La sala d’attesa torrida, dopo aver parcheggiato sotto un sole cocente di quelli che sciolgono l’asfalto, arroventano le lamiere e danneggiano plastiche e verniciature dell’automobile. Documenti da esibire. Il cellulare da depositare in un cassetto. Una mezz’ora di stallo, la gola secca e l’entrata nella Casa Circondariale di Lecce, per la restituzione del laboratorio con gli attori di Papillon Teatro guidati da Ama, Accademia Mediterranea dell’Attore, e pare un nome per riempire un acrostico.

Cancelli e chiavistelli. Un labirinto di porte aperte davanti a te e porte chiuse dietro di te. Il rumore delle inferriate nelle orecchie. I pianerottoli. Le scale. I lunghi corridoi amorfi, rigorosamente pattugliati. Le grida di qualche detenuto dalle finestre, che riecheggiano nella canicola: suppliche d’aiuto, urla di rabbia e di protesta, strilli velleitari di denuncia o forse di delirio.

Ama è il nome della compagnia di Franco Ungaro, curatore del progetto “Papillon” che porta il teatro fra i detenuti del carcere di Lecce. «Ama e ridi se amor risponde». «Ama e cambia il mondo». «Ama e fa’ quello che vuoi». Da De André a S. Agostino, ogni citazione è buona per raccontare un percorso.

Un anno fa era solo la lezione aperta proposta dai partecipanti al laboratorio guidato dalle attrici/pedagoghe Carmen Ines Tarantino, Veronica Mele e Benedetta Pati insieme a Lorenzo Paladini. Quel giorno spettatori esterni, giornalisti, staff educativo, docenti e detenuti penetrarono dentro un atto narrativo naif esplosivo che coagulava storie personali e collettive, sogni, rimpianti, disillusioni e speranze. L’emozione era palpabile. Ma quella parvenza effimera di normalità ebbe il potere di trasmettere un entusiasmo nuovo agli attori, trasformando le lacrime in sorrisi. A fine spettacolo, facce distese, foto e chiacchiere davanti a un mega vassoio di pasticciotti crema e amarena.

Le lacrime una volta erano bandite dal carcere. Erano un segno di debolezza da esorcizzare in tutti i modi. Ora sono solo una manifestazione di autenticità con cui è doveroso fare i conti. Questo ha insegnato il teatro ai detenuti: a gestire le emozioni, e prima ancora riconoscerle. E a condividerle, dopo averle trasformate in materiale drammaturgico.

31 luglio 2023. A distanza di un anno, sotto lo sguardo della direttrice del carcere Maria Teresa Susca, del sindaco Carlo Salvemini e con Eugenio Barba ospite d’eccezione, è il Chiostro dei Teatini a ospitare l’esito di un percorso durato oltre i due anni canonici di un laboratorio.

A pochi passi da piazza S. Oronzo (dove sono parcheggiati pulmini, auto della polizia penitenziaria e della Guardia di Finanza) lo spettacolo teatrale “La regina resta”, regia di Lorenzo Paladini, drammaturgia a cura di Benedetta Pati, testi originali e interpretazione di Francesco Alfonzetti, Angelo Fago, Giovanni Lupoli e Giovanni Volpe, ha la capacità di trasformare il disagio in arte, il reato in ferita da cui filtra una luce bluastra che crea l’atmosfera di una sala teatrale.

Ma che cos’è disagio in carcere? Non si tratta solo della mancanza di relazioni con l’esterno e della mancanza di libertà individuali. Sui detenuti pesa lo stigma della colpa, e qui siamo a volte di fronte a reati gravissimi.
In Italia i detenuti sono considerati soggetti da punire piuttosto che persone da riabilitare per favorirne il reinserimento familiare, sociale e lavorativo. Attraverso i media, si tuona contro l’incertezza della pena e la scarcerazione facile. Eppure nel nostro Paese finisce in prigione il 55% dei condannati, a fronte del 28% della Germania, del 30% della Francia e del 36% dell’Inghilterra. Nelle patrie galere si suicida mediamente una persona su mille ogni anno, una cifra superiore di 17 volte ai suicidi fuori dal carcere (dati Antigone, riportati anche in un recente articolo di Franco Ungaro sul “Quotidiano di Puglia”).
Un detenuto costa allo Stato italiano circa 150 euro al giorno, di cui solo 35 centesimi sono destinati alla riabilitazione.
Il teatro in carcere è un modo per restituire dignità e speranza ai detenuti, se è vero che il rischio di recidiva, per chi è reduce da quest’esperienza, scende dal 70% canonico al 6-7% (Vito Minoia, presidente del Coordinamento nazionale teatro in carcere).
Potere catartico dell’arte.

Nel carcere di Lecce, tra ottobre e giugno, ogni lunedì e martedì dalle 14.30 alle 17.30, un gruppo di una ventina di detenuti incontra gli artisti di Ama per esercitazioni di scrittura, canto e voce, lavori di improvvisazione e recitazione. Obiettivo del progetto è anche quello di connettere il mondo di dentro con quello di fuori, attraverso la partecipazione del pubblico esterno al programma di spettacoli per compagnie ospiti professionali. Tra gli artisti ospitati quest’anno, Angela De Gaetano, Mago Bustric e Fabrizio Saccomanno.

Tornando a “La regina resta”, lo spettacolo parte da una suggestione legata alla parola “madre”, come ci spiega la drammaturga Benedetta Pati: «L’idea di lavorare sulla parola madre è stata di Lorenzo Paladini, cui sin dall’inizio abbiamo deciso di affidare la regia dello spettacolo. Tuttavia, la prima volta che ne abbiamo parlato con i ragazzi, ci è stato subito chiaro che nel loro immaginario madre era sinonimo esclusivamente di mamma. Perciò, durante gli incontri con me, è stato necessario fare un passo indietro e, andando un po’ a ritroso nella storia e nell’immaginario di ognuno, capire ciò che “madre” significa realmente. Da qui sono venuti molti spunti: “madre terra”, “madre patria”, madre come “forza generatrice”, madre come “energia, conoscenza, forma e ricordo”. Questo primo brainstorming è stato fondamentale per aprire la percezione e la fantasia. Abbiamo lavorato molto con la scrittura chiedendoci a vicenda di comporre brevi testi o descrizioni in cui le varie sfaccettature del tema fossero scandagliate. Da lì sono nati i primi testi. Poi l’idea della scacchiera, che Lorenzo aveva già pensato come oggetto di scena. Un giorno raccontavo agli attori di un torneo mondiale di scacchi, e loro si sono appassionati tanto da chiedere un video per poterlo vedere con me. Dopo averlo visto uno di loro ha chiesto: “Ma allora la regina è il pezzo più importante?”.
Negli scacchi la regina, dunque la madre, è il pezzo senza cui il gioco finisce. È l’unico ad avere libertà di movimento e a poter sviluppare il maggior numero di strategie. Perderla significa perdere il gioco. Un po’ come accade nella vita.
«Invece il re è l’obiettivo: i progetti, gli affanni per cui ogni giorno ci svegliamo e ci poniamo delle domande. Il re è il talento da preservare, la curiosità da annaffiare, il tesoro che tutti custodiamo dentro, che porta a gesti a volte estremi, ad impulsività impreviste. Il re è il collante tra tutto, il cuore della scacchiera di cui, però, la regina è l’aorta».

Benedetta Pati si sofferma anche sul senso di comunità che si costruisce in carcere attraverso il teatro. «Quest’esperienza è stata diversa proprio per la relazione che si è stabilita tra noi attraverso la parola e il dialogo. Un dialogo profondo e onesto e mai fine a sé stesso che, se all’inizio difficilmente si allontanava dalla loro condizione, poi è divenuto il reale mezzo di fuga dall’aula che, di volta in volta, diventava scenario dei loro stessi racconti fantastici».

«La prigione non è l’alternativa alla morte». Franco Ungaro cita Michel Foucault per sottolineare l’importanza del teatro come mezzo per riscattare i detenuti e «liberare i loro vissuti da comportamenti criminali e violenti». Ma ciò cui abbiamo assistito a Lecce non è stato un “liberare da”, bensì un “liberare per”: un teatro per costruire relazioni e offrire una via d’uscita alle emozioni; per fondare un riscatto non come antitesi a un passato da rinnegare, ma come occasione per rimodularsi e rifondarsi, stabilendo nuovi punti di ripartenza.

Per lo spettatore che magari ignora esperienze come Volterra e la Compagnia della Fortezza di Armando Punzo (oppure le considera un unicum) vedere i carcerati sul palco, fuori dalle mura, aiuta a scardinare i pregiudizi.

“La regina resta” vede in scena quattro attori in gilet, cappello o coppola. I costumi di Lilian Indraccolo disegnano un look spensierato e smargiasso, di carattere e personalità. Davanti alla scacchiera posta su un tavolino, nascono dialoghi piani, sinceri. Alfonzetti, Fago, Lupoli e Volpe misurano la scena «a passi tardi e lenti». I loro sguardi si lambiscono e a volte si attraversano. Gli attori sembrano persi nei loro soliloqui. Eppure, quasi per inerzia, interagiscono, finendo per dialogare. Ne nasce un mix di rimpianti e nostalgie, oppure la forza di andare avanti, di drizzare la vista alla ricerca di un orizzonte che è innanzitutto semplicità e bisogno di equilibrio.

Ogni vita è una partita a scacchi. È fatta di stalli e di errori, ma anche di mosse a sorpresa, di occasioni da cogliere al volo. E a volte ti trovi a rovesciare una partita già persa. Accontentarsi del pareggio può essere un successo. Osare è un atto di coraggio, ma a volte apre il fianco alla sconfitta.
Questi personaggi mettono in scena la loro condizione di solitudini da percorrere e abissi da tastare, di vuoti e vertigini, dipendenze e fragilità con cui fare i conti.

“La regina resta” è un testo filosofico e poetico che nasce dagli attori, dalla loro capacità di scrutarsi dentro, anche senza mettersi completamente a nudo. C’è quel senso di mistero che aleggia nell’arte come nella vita; una linea d’ombra intrigante e inesplorata, così limitrofa ai territori inaccessibili dell’anima.
Un desiderio di stelle e smarrimento. Un senso di dolore e speranza. Una voglia di festa e rinascita, dilaniata da una colonna sonora spensierata e struggente, sognante e disincantata.
La capacità di reggere la scena e tenere a bada la tensione. La forza di ripartire e ricordare, soli quattro attori, un testo così lungo e denso, dosando tempi e voce, il vuoto e il pieno della drammaturgia. L’urgenza di rivelare la faccia nascosta e luminosa della propria luna. Per poi sciogliersi, abbandonati all’abbraccio di un pubblico di parenti, amici e spettatori comuni con la polizia alle calcagna, oppure sentire il deserto assordante di un’assenza.

LA REGINA RESTA
Produzione AMA – Accademia Mediterranea dell’Attore
Regia di Lorenzo Paladini
Con Francesco Alfonzetti, Angelo Fago, Giovanni Lupoli, Giovanni Volpe
Testi originali di Francesco Alfonzetti, Angelo Fago, Giovanni Lupoli, Giovanni Volpe, Benedetta Pati
Drammaturgia a cura di Benedetta Pati
Costumi: Lilian Indraccolo
Cura del progetto Papillon Teatro: Franco Ungaro, Lorenzo Paladini, Benedetta Pati, Veronica Mele, Carmen Ines Tarantino

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