Uscito nell’autunno dello scorso anno fra i libri quadrati della Ubulibri, “La scena esausta” copre un arco di tempo che va dal 2001 al 2008, sette dei quattordici anni complessivi in cui il collettivo pratese ha sviluppato la propria ricerca creativa.
Creazione collettiva, quella della formazione toscana, che muove le fila dallo Spazio K di Prato passando attraverso le menti di Massimo Conti, Marco Mazzoni, Gina Monaco, Matteo Bambi, Luca Camilletti e Cristina Rizzo (gli ultimi due oggi non fanno più parte del gruppo).
L’esaustiva (esausta?) rappresentazione della loro opera vive, in questo libro, oltre che nelle numerose fotografie, anche nelle dettagliatissime partiture, qui come altrettante immagini che si vedono rappresentate sotto forma di gesti, azioni, tempi sincopati strutturati su una “tediosa assenza di ritmo e di flusso drammatico”, prendendo a prestito le parole di Marten Spangberg, una fra le voci autorevoli di una certa parte di critica e teorica teatrale contemporanea (fra gli altri Fabio Acca, Silvia Fanti, Goffredo Fofi) che fa da completamento all’iniziativa editoriale.
E’ un procedere, un “farsi” il lavoro di Kinkaleri, un’aggressione in piena regola (anzi, al di fuori di ogni regola) ai canoni della rappresentazione scenica.
Dall’idea di finzione il centro del discorso è come se si spostasse su un livello “altro”, recalcitrante alla tradizione, forse anche alla contemporaneità. Livelli più attinenti ad uno studio, un elaborare la realtà, il presente, attraverso la manipolazione stessa del qui e ora teatrale. La realtà che viviamo è oggi indiscutibilmente vincente a confronto con lo spettacolo offerto dal teatro, come esemplificano in maniera lucida le parole di Silvia Fanti, “ed è questo il terreno su cui ha senso stare, lavorando sui limiti”.
L’attività dei sei di Prato, che piaccia o meno, ha rappresentato un’energica sferzata all’intero sistema produttivo teatrale italiano, all’incapacità di aprirsi a linguaggi diversi senza per questo rinunciare alla forma spettacolo. Declinare la finzione dentro la realtà è il punto cruciale, il contraltare “di rottura” ad una visione anacronistica della parola “finzione”.
Il “qui e ora” diventa, molto più prosaicamente, “ciò che vedi è ciò che è” (What You See Is What You Get – WYSIWIG), concetto mutuato dalla prassi informatica e dall’impatto che la rete ha operato sull’evoluzione della tecnologia digitale, più che da quella teatrale. Non mera rappresentazione, dunque, ma l’esibire l’esatto contrario di un’idea di rappresentazione “tradizionalmente intesa”.
I riferimenti conducono anche ai lavori dell’ultimo Beckett o all’Artaud de “I Cenci”, dove l’ispirazione dichiarata verso il padre del teatro della crudeltà viene abilmente disattesa sovvertendone i punti di vista e facendo del classico artaudiano un esempio del fallimento, dell’impossibilità di tradurre efficacemente in prassi la sua teorica teatrale.
Da “My Love for You Will Never Die” fino alle cadute interplanetarie in sequenza di “West”, con il personalissimo coinvolgimento del pubblico, il progetto Kinkaleri più che far teatro ama, citando le parole di Goffredo Fofi, filosofeggiare.
Questa è stata la potente intuizione kinkaleriana. Oggi la performance non si svolge più in spazi specifici, quali teatri o gallerie d’arte: la performance della realtà, del quotidiano, è entrata a tutti gli effetti nelle nostre vite, “vuote ma piene di pensiero”.
2001-2008. La scena esausta
Kinkaleri
191 pp., ill.
brossura
Ubulibri
2008
€ 27
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