Come definiresti l’“esperimento” 2012?
Potrei definirlo un progetto di resistenza. Siena, che era un po’ un modello di città culturale per l’Italia, ha attraversato, nell’ultimo anno, delle vicende politico-finanziare legate all’establishment di riferimento. Questo è entrato in crisi rispetto sia agli avvenimenti della banca e della fondazione Monte dei Paschi, che era uno dei pilastri a sostegno della cultura della città, che poi anche del Comune prima ancora dell’Università. Quindi è un modello che, dal punto di vista culturale, attualmente soffre. Noi, come operatori della città che negli anni hanno costruito dei progetti nell’ambito della contemporaneità, dalla prosa alla musica, ci siamo ritrovati e abbiamo pensato di creare questo progetto di resistenza. È chiaro che mettere insieme tre cose che avevano altrettante identità, tre percorsi e tre progetti diversi, è stata la sfida. Perché è facile fare i cartelloni – “fare sistema” come dicono i politici – ma dietro un cartellone ci dovrebbe essere un progetto culturale, e lì è stata la difficoltà oggettiva di questo progetto, lanciato lo scorso anno durante il festival Voci di Fonte, dove organizzammo un incontro che aprimmo alla città, lanciando la possibilità di creare un progetto più unitario, che raccogliesse esperienze di valore. Ci siamo così ritrovati, Festival Contemporaneamente Barocco, Teatrinscatola e Voci di Fonte, e abbiamo lavorato su affinità rispetto anche a quello che è il discorso sulla contemporaneità, nel senso di essere in un punto da cui guardare passato e presente.
La scena è proprio il luogo dove questo punto di vista si sviluppa, e abbiamo trovato delle affinità incredibili. Il discorso della musica barocca, ad esempio, potrebbe sembrare non pertinente, invece è uno stile musicale molto legato all’improvvisazione, alla figura del performer, così come il percorso del teatro contemporaneo. Abbiamo allora provato a lavorare in questo senso, e abbiamo cercato di mettere lo spettatore in condizione di fare un certo tipo di percorso, stimolarlo, dargli un ruolo da protagonista, e quindi cogliere il senso di memorie passate e future che sono alla base della creazione di un’identità dell’essere cittadino oggi.
In questa idea di sinergia c’è anche il discorso del fattore economico: ha contribuito ad accelerare il processo?
Questa è certamente una riflessione che, come operatori, ci siamo trovati a fare. Penso però che si possano fare delle cose egregie anche con pochi soldi. Credo che la città fosse arrivata a un punto in cui poteva meritare un festival che le desse uno slancio, a ripartire proprio dalla cultura, rispetto alle vicende locali. Quindi una sfida sulle progettualità future.
Siena attualmente vive un percorso di progettazione per Siena Capitale Europea della Cultura, candidatura che sarà presentata l’anno prossimo per il 2019, anno dedicato all’Italia. In questo contesto, proprio la cultura sta diventando un momento riflessivo importante, nel senso che una città dal passato culturale glorioso oggi può ritrovare nella cultura una spinta per ricostruire un tessuto, un’identità, un’appartenenza, e quindi una resistenza e una ripartenza, da quello che sono delle istanze legate alla cultura. In questo senso anche noi cerchiamo di dare il nostro contributo, senza metterci nella condizione del piagnisteo, cioè “non ci sono soldi non si può fare”.
Nel progetto di Sienafestival è evidente l’indirizzo molto netto di contaminazione di linguaggi. Non c’è in questa scelta una sorta di rischio di snaturare le varie realtà, o di creare una confusione nell’orientarsi da parte dello spettatore?
La sfida, in questo senso, non so se riusciremo a vincerla, però le ambizioni ci sono. Creare festival multidisciplinari ha molto il sapore, dall’esterno, di fare di tutto un po’. Il rischio è oggettivo, poiché fa molto “festival da parrocchia” mettere un po’ di tutto, mentre una scelta di taglio netto riscuote maggiore successo, sia dal pubblico che dalla critica. La riflessione che noi stiamo facendo riguarda però il patrimonio culturale. Il nostro gruppo di lavoro viene fuori da un percorso di un progetto europeo, che si è concluso l’anno scorso: Playing identities, ed aveva come tema portante la creolizzazione, un concetto di Edouard Glissant in cui c’è una negoziazione di contenuti e di valori che porta alla creazione di nuove identità. Questa è una sfida anche rispetto alle questioni antropologiche e sociologiche del multiculturalismo. Su questa strada il cammino ci ha portato a una riflessione che conduce al concetto, molto in voga oggi, dei beni comuni, al discorso della memoria e del patrimonio culturale, che può generare nuove forme d’arte o può essere parte costituente dell’essere cittadino, o comunque parte costituente dell’identità delle persone. Tutto questo implica una riflessione che non può essere settoriale: come si può arrivare ad aumentare l’audience delle arti performative attraverso un’analisi del patrimonio culturale?
Il nostro è un tentativo di aprire una riflessione per far capire al pubblico che c’è un percorso, un’esperienza culturale ampia che passa attraverso vari linguaggi, per riuscire a ricostruire quella che è una memoria che abbiamo noi cittadini contemporanei, e proiettarci nel futuro proprio nel momento della contemporaneità.
C’è un attimo in cui il mondo si ferma ed è possibile guardare ciò che è stato e ciò che potrà essere. In questo senso c’è una riflessione sull’arte contemporanea anche nell’ambito di quella performativa. Sicuramente è una materia molto complessa. Siamo in una situazione di riflessione embrionale, vedremo dove ci porta. È un momento dove teatro, musica barocca, cinema e fotografia tentano di rincorrere il tempo per riuscire in qualche modo a dominarlo. È un’esperienza di sapere in cui si cerca di dare al pubblico una lettura legata al sentire ma che porta al sapere, quindi a una consapevolezza, a un’esperienza conoscitiva del mondo.
Tra le varie iniziative in programma, ci sono anche dei progetti educativi.
Questi sono progetti legati al mondo della scuola. Ci sono dei percorsi laboratoriali per ragazzi, rivolti a quello che è il teatro nella creazione. C’è un laboratorio di costruzione di oggetti di scena, al teatro delle ombre, oltre a visite guidate all’interno del teatro. L’intento è quello di mettere i bambini in un percorso di conoscenza di ciò che c’è dietro a un percorso creativo e quindi renderli consapevoli, quando vengono portati a vedere spettacoli in teatro, di cosa accade, del perché, di come si è arrivati a tutto questo.
Nell’organizzazione di Sienafestival ci sono tantissime realtà presenti nella città. Avete richiamato l’attenzione e chiesto la collaborazione di tanti soggetti, anche extrateatrali, che si sono uniti per l’evento.
Tutto questo deriva da una sensibilità che spesso ci è venuta nell’ambito della progettazione, cioè quella di riuscire a creare network, reti. Dare, dal punto di vista comunicativo, un impatto forte di un progetto sulla città, lo si fa anche attraverso i partner. Nel momento in cui si tenta di costruire un’armonia fra i vari soggetti che mettono a disposizione spazi, questo crea un effetto su come anche questo evento viene supportato dagli spazi della città . È fondamentale, secondo me, sfruttare il più possibile la dimensione di rete di interlocutori e organizzazioni della società civile. Questa per me è l’unica speranza per sopperire talvolta alla diminuzione delle risorse economiche, e riuscire ad ottenere un grande risultato di sensibilizzazione sul territorio.
Ti senti di tracciare un bilancio dell’iniziativa, per quanto riguarda soprattutto la sezione teatrale?
Le nostre paure iniziali riguardavano soprattutto la collocazione spazio-temporale in un periodo abbastanza sconosciuto, poiché i tre eventi – Festival Contemporaneamente Barocco, Teatrinscatola e Voci di Fonte – si svolgevano in altre stagioni. Ci preoccupava anche il fatto di scegliere dei teatri come spazi, perché il teatro è un luogo dove decidi di andare, mentre – quando ad esempio organizzavamo il Festival Voci di Fonte – utilizzavamo le Fonti di Pescaia, ed era un evento più complesso e ricco: c’era uno spettacolo ma c’era anche un luogo di incontro, c’erano una serie di elementi aggiuntivi che facevano sì che lo spettatore decidesse di partecipare. Qui invece c’è stata una scelta secca: compro il biglietto e vado a teatro. Riempire un teatro da 500/600 posti non è sempre una cosa semplice, soprattutto con nomi che non sono noti o televisivi.
Con lo spettacolo di Danio Manfredini, “Il principe Amleto”, siamo stati molto contenti, perché la risposta è stata di 400 persone, e per me questo è già un dato molto importante. Anche gli altri eventi in spazi più piccoli hanno avuto un’ottima risposta; su Elio e Paolo Rossi non potevamo certo avere dubbi!