In prima nazionale a Torino, il nuovo spettacolo di Serra ha “una dimensione europea di ampio respiro”, come ha dichiarato il Direttore dello Stabile Filippo Fonsatti, che lo coproduce
Testo di commiato dalle scene di William Shakespeare e potente riflessione sulla libertà di scegliere se vendicarsi o perdonare, “La tempesta” ha debuttato alle Fonderie Limone di Moncalieri, nuovo atteso spettacolo di Alessandro Serra.
Non staremo qui a riassumere l’opera, capolavoro del teatro elisabettiano che il regista sardo traduce personalmente con sapienza e orecchio attento al senso del tragico e forse, in misura ancor maggiore, del comico e del grottesco.
Ci sembra invece doveroso affrontare lo spettacolo nel suo dispiegarsi come imponente teatro di regia, definizione certamente scivolosa, che spesso rischia di congelare l’atto teatrale in un oggetto sterile, che basta a sé stesso e che prescinde dagli attori. Ebbene, qui il rischio c’è, lo si intravede, ma resta in equilibrio sul filo, senza mai cadere.
Serra offre agli occhi degli spettatori (la vista è certamente il senso maggiormente sedotto) una monumentale macchina teatrale, dove le competenze in ambito di regia, gestione della luce e dello spazio scenico, e gli accordi aurei tra i corpi degli attori e gli ambienti, svelano conoscenze profonde che affondano le proprie radici nei canoni del teatro, in primis orientale.
Ritroviamo certamente una vicinanza al linguaggio scenico per simboli, che trae probabilmente origine in Gordon Craig, il quale a sua volta contribuì alla nascita, in Europa, di una viva curiosità verso il teatro nō giapponese e il lascito del maestro Zeami. Si tratta di cognizioni che influenzano lo spettacolo nella scelta di portare in scena pochi ed evocativi oggetti, carichi di significati simbolici, che richiamano la parte per il tutto, creando una sorta di filtro antinaturalistico tra attori e oggetti, tra attori e testo, quest’ultimo considerato alla stregua di un oggetto da manipolare, da far “fuoriuscire” dalla bocca degli attori, preferibilmente in assenza di movimento o separando (trattenendo a volte) il gesto, proprio per creare una sospensione e allontanare lo spettro del naturalismo, attitudine non affine a Serra, come ha ampiamente dimostrato nei suoi precedenti lavori.
Ci sembra di intercettare anche l’eco di Grotowski in quella presenza sacralizzata, iconica, dell’attore che si disfa di orpelli, disvela la propria umanità e si offre per essere indagato con trasparenza. L’accordo tra pieno e vuoto, tra nero e luce, tra chiasso e silenzio, rivela contrapposizioni che – nelle infinite declinazioni – sono state la materia di indagine del maestro Peter Brook, autore de “Lo spazio vuoto” e riferimento cui Serra spesso ritorna in molte interviste. Come non citare, infine, l’omaggio a Strehler, in quell’inizio sublime con i teli azzurri con cui il regista meneghino rappresentò la scena iniziale della sua celebre “Tempesta”, e che ormai si definiscono “teli tempesta” in suo onore.
Testo, attori, scene, luci, costumi: sono elementi che concorrono alla creazione dello spettacolo, secondo un disegno che li organizza in una macchina multistrato elaboratissima che realizza, in estrema sintesi, uno spettacolo sul potere – dinastico e del teatro – e sul rapporto tra Arte e Natura.
C’è Re Lear, ossia l’umanità tutta riassunta nella più grande opera del Bardo, in quella paternità di Prospero – padre innamorato della figlia Miranda – che si consuma in una vecchiaia gelosa e impietosa finché improvvisamente, come per incanto, non giunge l’evidenza del perdono come unica via verso la magnificenza (questa sì sovrannaturale) dell’essere umano quando rinuncia a usare l’arma della vendetta e depone simbolicamente il bastone del potere.
C’è la celebrazione del teatro in quel fondale nero, dietro alla pedana lignea, che assomiglia allo spazio del rimosso, dell’inconscio, dove tutto pare inaccessibile e dove, come per magia, emergono dal buio i teatranti, i guitti con i loro costumi sgualciti e la loro doppia esistenza, quasi a dichiarare che il teatro è il mezzo migliore per accedere all’inconscio, alla vita “dentro”, per guardarla col gentile microscopio dell’arte.
C’è una fiducia spassionata nella trascendenza dell’uomo in quel rapporto dialettico tra Arte (una delle parole chiave di “The Tempest”) e Natura, dove l’Arte di Prospero è da intendersi come elaborazione intellettuale, sforzo intellettivo dell’essere umano per superare la biologica condizione naturale (lo sguardo puro di Caliban che da adulto conserva in sé lo stupore dell’infanzia) e costruire meraviglie, opere nate dalla mente che riesce a trasformare le cose, indirizzandole al bene o al male.
Affiatati i numerosi interpreti (Fabio Barone, Andrea Castellano, Vincenzo Del Prete, Massimiliano Donato, Paolo Madonna, Jared McNeill, Chiara Michelini, Maria Irene Minelli, Valerio Pietrovita, Massimiliano Poli, Marco Sgrosso e Bruno Stori), pur rivelando un’omogeneità attoriale ancora da raggiungere pienamente; un plauso in particolare a Marco Sgrosso, prezioso interprete del teatro italiano, che qui regala una presenza magnetica e pervasiva, all’apparenza semplice, in realtà perfettamente risolta nella sua complessità.
Lo spettacolo è in arrivo a Roma, al Teatro Argentina, dal 28 aprile al 15 maggio, per poi partire per una tournée all’estero che lo porterà, nei prossimi mesi, in Lituania, Francia (al Festival d’Avignon) e Polonia.
LA TEMPESTA
di William Shakespeare
traduzione e adattamento Alessandro Serra
consulenza linguistica Donata Feroldi
con Fabio Barone, Andrea Castellano, Vincenzo Del Prete, Massimiliano Donato, Paolo Madonna, Jared McNeill, Chiara Michelini, Maria Irene Minelli, Valerio Pietrovita, Massimiliano Poli, Marco Sgrosso, Bruno Stori
regia, scene, luci, suoni, costumi Alessandro Serra
collaborazione alle luci Stefano Bardelli
collaborazione ai suoni Alessandro Saviozzi
collaborazione ai costumi Francesca Novati
maschere Tiziano Fario
si ringrazia per la consulenza linguistica Donata Feroldi e per la traduzione in lingua straniera Max Pardeilhan
Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale / Teatro di Roma – Teatro Nazionale / Emilia Romagna Teatro Fondazione / Sardegna Teatro
in collaborazione con Fondazione I Teatri Reggio Emilia / Compagnia Teatropersona
Durata: 1h 45′
Applausi del pubblico: 6’ 05’’
Visto a Moncalieri (TO), Fonderie Limone, il 15 marzo 2022
Prima nazionale
Lascio un commento per approfondimento teorico sulla visione.
Ho trovato lo spettacolo, visto nella sua ripresa al Teatro Carignano di Torino, molto fastidioso. E’ un teatro di “visione”, dalle luci, ai particolari oggetti essenziali, primordiali, “agresti”, ai quadri d’insieme quasi caravaggeschi, in cui non c’è una… visione di cosa può essere di diverso l’attore – che è diretto alla maniera della tradizione del teatro stabile italiano, con quelle pause, quelle accelerazioni, quelle forzature, quel voler far ridere che non fa ridere, tipiche della tradizione del teatro d’accademia italiano. Per di più gli inserti musicali, cosi imponenti e maestosi, fanno pensare a una certa tradizione di teatro quasi amatoriale, di spettacolo “con la bella musica”, Uno spettacolo che gioca a fare il congegno poetico-teatrale, quasi una prosecuzione “nera” della versione di Strehler (tutta aerea quella, tutta oscura questa), non lasciando niente in mano se non…il teatro in sè. Ed è poca cosa, perchè non rimane nulla in mano. Grande occasione mancata e molta irritazione.