E’ stato, per chi scrive, uno dei migliori lavori visti durante la Biennale Teatro 2020, “La Tragedia è finita, Platonov” di Liv Ferracchiati; ed è stato bello assistere, attraverso questo debutto – che si è anche aggiudicato la menzione speciale da parte della giuria del festival – quanto mestiere abbia acquisito il regista tuderte negli ultimi due anni, da quando l’avevamo incontrato per la prima volta, in Biennale nel 2018, con la profonda e delicata “Trilogia sull’identità”.
Il suo ultimo spettacolo è ricco di acume, appassionato e appassionante. È la fresca e vitale riscrittura in chiave contemporanea di un classico, il “Platonov” di Anton Čechov, primo dramma che il drammaturgo russo scrisse all’età di vent’anni, e che rimase incompiuto. Smarrito il titolo e il frontespizio, il testo venne pubblicato postumo prendendo in prestito il nome dal protagonista attorno a cui ruota tutta la vicenda, Michael Platonov. Un maestro elementare di ventisette anni, tormentato come Amleto e impenitente come Dongiovanni. Uno spirito contraddittorio, fondamentalmente debole, insofferente per la propria sorte (lui, uomo brillante, finito a fare il maestro di provincia), ma incapace di compiere ogni gesto decisivo e di scegliere tra le donne che lo contendono, che lui seduce sia per vanità che per desiderio di riscatto: le vorrebbe tutte, ma poi non sceglie nessuna.
Un testo torrenziale, quasi impossibile da rappresentare perché troppo lungo e con troppi personaggi, che nelle mani di Ferracchiati diventa una “sintesi” felice e ben architettata, e un’opera vivificata attraverso una dialettica vivace e ironica, che abbraccia l’indeterminatezza di Platonov per farne lo specchio di una fase evolutiva della vita – che un po’ tutti prima o poi attraversiamo – e di quel sentimento di smarrimento e caos che, oggi, più che mai, ci tiene in pugno.
Il regista non perde d’occhio le caratteristiche dialogiche e strutturali di Čechov, e le modella pian piano, con sapienza inventiva, in un gioco teatrale tra il raccontato e il vissuto, confondendo i confini tra realtà e immaginazione.
Al centro della scena ci sono solo cinque dei personaggi originali: Platonov, la moglie Saša, Anna Petrovna, la giovane vedova del generale Vojnicev, Marja Grekova, la ventenne proprietaria terriera vicina dei Vojnicev, e Sof’ja, moglie del figlio di primo letto del generale Vojnicev.
A bordo scena, impegnato – ma con poca convinzione – a un vogatore di legno, c’è il lettore, un personaggio originale, in abiti moderni, non presente nel testo cechoviano, che Ferracchiati, non a caso, tiene per sé. Non a caso perché, a volte, il lettore, come il regista, è in grado di entrare così profondamente nel testo da esautorare con la propria immaginazione l’autore stesso, e perché si respira, fin dall’inizio dello spettacolo, un appassionante legame affettivo che il lettore ha costruito fra sé e l’autore russo e fra sé e i personaggi del testo, come se la sua vita privata fosse rimasta invischiata nella trama e nella vita dei personaggi che la animano.
Un rapporto affettivo iniziatico, destinato a sovvertire “l’ordine” cechoviano attraverso una dialettica esclusiva e inclusiva tra il lettore e chi è in scena, e un contraddittorio ironico e disinvolto che spezza l’atmosfera e ne impedisce l’unilateralità, pur mantenendo vivo e autentico l’elemento tragico: il dolore e il dilemma esistenziale dato dalla distanza irrecuperabile tra realtà e desiderio, che rende i personaggi, dentro e fuori la scena, incompleti, fragili e fallaci.
Perché non viviamo come avremmo potuto? Esisto o sono io stesso una proiezione della mia fantasia? Siete mai stati sull’orlo della vostra esistenza? Avete mai perso l’orientamento esistenziale?
Sono interrogativi che si pone il lettore, che non riuscendo a ottenere per sé la “forma” desiderata – il vogatore dovrebbe servire a quello – cerca di darla ai personaggi di Čechov, parlando a e con loro, rivolgendo i propri dubbi e le proprie domande esistenziali, lasciando che siano queste a varcare il confine del dramma originale, mentre lui si mantiene fisicamente a distanza, muovendosi lungo il perimetro della scena disegnato a terra, e circoscritto dalle luci di Emiliano Austeri.
I personaggi sembrano sentirlo da lontano, come un’eco portato dal vento, e poi sempre più vicino, man mano che i pensieri del lettore si insinuano nella loro mente, e li motiva di nuovi pensieri e possibilità. Un nuovo “fuoco” si accende nell’anima delle quattro presenze femminili, che in scena trova una resa metaforica illuminante e poetica nel finale: le donne entrano in scena indossando eleganti abiti d’epoca in carta bianca, il cui fruscio ricorda quello del mare insieme allo sfogliare del pagine, e poi quelle essenze di carta bianca – disegnate con mestiere da Lucia Menegazzo – dove ancora qualcuno potrebbe scrivere le proprie regole, vengono fatta a pezzi, lasciando scoperta la carne.
Il “tradimento” del lettore/regista avviene gradualmente, con un andamento polifonico, mantenendo l’intreccio cechoviano; pian piano il lettore rende suo il testo che ama, e che ha suscitato in lui la messa in discussione, mettendo fine da sé alla tragedia, proprio come metaforicamente è prevista “l’uccisione” del proprio padre nel momento in cui si passa all’età adulta, e si vuole lasciare dietro di sé i vecchi modelli sociali e culturali.
Gli attori, tutti, sono bravissimi. Riccardo Goretti ben si accorda con le velleità di Platonov, ed è capace di rendere ogni suo tentativo, ogni resa, ogni ripensamento in bilico tra istrionismo e insofferenza per sé stesso, riuscendo a reggere e a rendere efficace anche la trovata registica più azzardata, che lo vede scatenarsi in centro scena in “up & down (don’t fall in love with me)” – titolo eloquente dell’animo del personaggio – di Billy More, un grande classico della musica dance europea.
Francesca Fatichenti, Alice Spisa, Petra Valentini e Matilde Vigna interpretano le quattro donne dominando la scena con grande carisma e capacità interpretativa; sanno indulgere al romanticismo, e allontanarsene con determinazione, piegare la sobrietà con spinte allusive dimostrandosi capaci di abitare e arricchire i loro personaggi di inaspettate sfumature drammatiche, comiche, liriche e sagaci, in maniera tale da sembrare tutt’altre persone sotto la luce degli applausi finali.
Anche Liv Ferracchiati riesce molto bene, con la sua teatralità disinvolta, ad andare contro la teatralità melodrammatica del testo, riportando la vicenda sul terreno “normale” dell’uomo contemporaneo, e permettendo che la matassa fermentante scivoli senza appesantimenti.
LA TRAGEDIA E’ FINITA, PLATONOV
da Anton Checov
di Liv Ferracchiati
Con: Francesca Fatichenti, Liv Ferracchiati, Riccardo Goretti, Alice Spisa, Petra Valentini, Matilde Vigna
Una produzione: TSU Teatro Stabile dell’Umbria
Aiuto regia: Anna Zanetti
Dramaturg di scena: Greta Cappelletti
Suono: Giacomo Agnifili
Luci: Emiliano Austeri
Costumi: Francesca Pieroni
Lettore collaboratore: Emilia Soldati
Consulenza linguistica: Tatiana Olear
Ideazione e realizzazione costumi di carta e costumista assistente: Lucia Menegazzo
Foto di scena: Luca Del Pia
Durata: 1h 30’
Visto a Venezia, 48^ edizione del Festival Internazionale del Teatro, il 20 settembre 2020