La stagione operistica del Teatro La Fenice di Venezia apre il 2020 con una “Traviata” tutta contemporanea, firmata dal celebre regista canadese Robert Carsen.
Se la prima verdiana del 1853 – sempre alla Fenice – fu, come scrisse il compositore stesso in una lettera, un vero e proprio “fiascone”, pare invece che questa versione (che arrivò a Venezia nel 2004 per inaugurare la rinascita della Fenice dopo l’incendio) non manchi di numerosi punti di pura riuscita, capaci di far parlare e risuonare il capolavoro anche al di là delle distanze di tempo, contesto e società che ci separano dalle peculiarità della trama che Verdi, con il librettista Francesco Maria Piave, ricavò dalla “Dame aux camélias”: il romanzo, che racconta il tragico destino della cortigiana parigina Margherita Gautier, consacrò la prima fortuna di Alexandre Dumas figlio, rendendolo finalmente pari al padre, quantomeno in termini di notorietà.
La Parigi di metà Ottocento che la vicenda richiederebbe è sconvolta dalle pose dei figuranti e dai costumi scelti per questo rifacimento veneziano da Patrick Kinmonth. Tutto conduce, infatti, ad un’atmosfera da upper class annoiata da sé stessa, e dedita ad ostentare un lusso solo presunto, che non smette – volutamente – di cadere nel grottesco. Siamo, insomma, in una Parigi bene invasa dal kitsch: applique art decò, arredamento in stile barocco contemporaneo e un gioco di velluti sia per gli abiti che per le tappezzerie. I caratteri sono quelli propri di uno sfarzo che – dimenticata da tempo la signorilità dell’ancien régime – è tutto da parvenu, con lineamenti che si fanno presto perturbanti nel consegnare un ritratto della ricchezza d’oggi, tanto festaiola quanto vuota, promiscua e senza meta al di là della dissipazione del denaro.
Rimanendo in quest’ottica, il primo grande momento di questa messa in scena è il celeberrimo “Libiamo” che presto giunge durante il primo atto, il primo perfetto cortocircuito che porta questi ricchi d’oggi a cantare “tutto è follia nel mondo / ciò che non è piacer”, ma dalla base di un benessere guadagnato chissà come, in cui ad essere sovrana sembra essere la superficialità e nient’altro.
Quando il sipario si apre, invece, sull’inizio del secondo atto sembra ad un primo impatto un po’ debole la scena selezionata per i molti quadri che contiene: una grande parete angolata, decorata con una stampa che allude ad alberi in una quasi monocromia sui toni del verdino, e al suolo, al posto dell’erba a completamento della simulazione del giardino, uno stuolo di banconote esteticamente simili ai dollari, che sparutamente piovono dal cielo contemporaneo di questa ambientazione.
Subito al bando, però, le prime impressioni, se è vero che immediatamente ci si accorge di quanto bene tale minimalismo si presti all’accentuazione dello straniamento che viene dai costumi scelti: le poche figure in scena indossano camicie quadrettate alla tirolese, salopette da montagna, giacche di velluto di un’altra era. Il padre Giorgio Germont veste i panni tipici di un imprenditore: completo classico ben abbottonato e cravatta rossa. Per Violetta, infine, un vestitino a fiorellini da casalinga contenta. Riuscita ed eloquente, dunque, l’assolutizzazione che ne viene, mediata da un’essenzialità scenica che riesce perfettamente nel controbilanciamento del patetismo melodrammatico delle scene che “Traviata” presenta nel suo secondo atto.
Altro capolavoro registico è invece il complesso di scelte che porta l’infittirsi della pioggia di banconote proprio durante il celebre “Amami Alfredo”, scena che fa pensare non poco anche all’indiscutibile centralità che il tema dei 1000 luigi riveste all’interno della trama dell’opera, la somma per cui Violetta ha fatto vendere tutti i beni parigini; prospettiva questa quasi sempre all’ombra rispetto ai temi più nobili del melodramma quali l’amore e il grande sentire.
L’aria misterica, ma straniante, del Coro di zingarelle e mattadori continua poi l’indagine registica sul potere oscuro del denaro, che ben s’abbina con i toni in minore della musica verdiana. È proprio questo, al contempo, il trionfo avanguardistico di questa rivisitazione: una sfera specchiata scende dal soffitto, torna il velluto sugli abiti e sui muri, ed è presto in scena quello che sembra essere un vero e proprio trionfo da disco-kitsch, il cattivo gusto glitterato da disco-dance di qualche decennio fa.
L’esotismo delle zingarelle, capaci di leggere l’avvenir d’ognuno sulla mano, è qui stravolto con lo stile di un far west che, tra fumo e luci soffuse, tra cappelli e stivali da cowboy, conduce ad uno spogliarello reciproco in una lap dance dalle pose sempre più allusive.
Interessanti e stimolo di riflessione l’Alfredo che spesso porta con sé una reflex per scattar foto qua e là durante le varie scene, così come la presenza di una televisione a schermo interrotto, con il rumore grigio dei pixel, proprio accanto ad una Violetta distesa sull’inizio dell’atto terzo. Non da poco anche l’accensione di tutte le luci del teatro per “È strano!…” nell’effimero ed attimale ritorno a vivere di Violetta, subito prima della morte per tisi.
Ci ha convinto meno, invece, la scelta di porre una fotografia di Violetta stampata su lucido in grande formato come immagine “de’ miei passati giorni”: quanto più interessante sarebbe stato vedere un piccolo oggetto più raffinato, magari una riproduzione visiva contenuta in una cornice autoilluminante al neon.
Sulle scelte per le presenze in scena, il migliore tra gli interpreti è Armando Gabba nei panni di Giorgio Germont, con un’esecuzione molto cantata – a volte anche a braccio destro teso – che ci riannoda alla staticità granitica delle certezze dei padri, ma che manca forse in alcuni tratti di una sciolta espressività attoriale.
Nonostante una certa freddezza iniziale, il soprano Francesca Sassu, nei panni di Violetta, si dimostra poi davvero un’ottima interprete, specie sulla fine del primo atto e in tutto il terzo, con un’esecuzione impeccabile e sentitissima di “Addio del passato”.
L’Alfredo di Stefano Secco si distingue, infine, per delle esecuzioni davvero commoventi, tra cui spicca su tutte l’aria “De’ miei bollenti spiriti” con il celebre “Io vivo quasi in cielo”, e specie nel secondo atto, in genere reso indimenticabile da alcune incantevoli riprese dei bassi degli archi orchestrali – ottimamente eseguite, sotto la direzione di Stefano Ranzani -, come anche dalla forza degli ottoni nelle chiuse, capaci di soddisfare l’intero spazio acustico del teatro.
Un’ottima occasione, dunque, per gli amanti dell’opera e della sua storia, rimessa in discussione, rivisitata e rivitalizzata da questo allestimento, in scena a Venezia fino al 29 gennaio.
LA TRAVIATA
Direttore Stefano Ranzani
Regia Robert Carsen
Scene e costumi Patrick Kinmonth
Coreografia Philippe Giraudeau
Light designer Robert Carsen e Peter Van Praet
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
maestro del Coro Claudio Marino Moretti
CAST
Violetta Valéry Maria Grazia Schiavo (4, 18, 24, 26, 29/01) Francesca Sassu (5, 22, 28/1)
Alfredo Germont Stefano Secco (4, 18, 24, 26, 29/01) Alessandro Scotto di Luzio (18, 22, 28/1)
Giorgio Germont Simone Del Savio (4, 18, 24, 26, 29/01) Armando Gabba (5, 22, 28/1)
Flora Bervoix Elisabetta Martorana
Annina Sabrina Vianello
Gastone Enrico Iviglia
Il barone Douphol William Corrò
Il dottor Grenvil Mattia Denti
Il marchese d’Obigny Matteo Ferrara
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Direttore Stefano Ranzani
Maestro del Coro Claudio Marino Moretti
con sopratitoli in italiano
Allestimento Fondazione Teatro La Fenice
durata complessiva 2h 55′
Visto a Venezia, Teatro La Fenice, il 5 gennaio 2020