L’Abisso di Davide Enia. Note controcorrente

L'abisso di Davide Enia (photo: Futura Tittaferrante)
L'abisso di Davide Enia (photo: Futura Tittaferrante)

Facciamoci forza. Uscire da uno spettacolo vincitore del Premio Le Maschere, del premio Hystrio Twister (del pubblico), candidato tra gli altri al premio Rete Critica, all’Ubu (che l’autore ha già vinto, così come il Riccione-Tondelli, l’ETI, ecc.), spettacolo tratto da un libro elogiato da più parti (vincitore del Mondello 2018) e sentire un certo disagio fa sentire ancora più soli. Soprattutto se il sentimento provato non è quello verso un’opera volutamente urticante, non è nella cosa che si è vista ma per la cosa, ovvero un più profondo e irritante senso di estraneità al linguaggio – ancora di più, alla maniera della rappresentazione. Qualcosa sfugge? Probabile, e allora ci si getta su recensioni, su sguardi altri, si parla con colleghi, ma nulla vale a guarirci, a sciogliere il nodo. E allora, «Meglio star zitti?», come si chiedeva Giovanni Raboni in un intervento raccolto insieme ad altri in un omonimo libro Mondadori, qualche mese fa furoreggiante nelle bacheche Facebook di molti addetti ai lavori?
La domanda del poeta era retorica, e la risposta doveva essere «no!». Così noi, tanto più che abbiamo poco da perdere e parliamo da un pulpito sensibilmente meno elevato, parliamo; non prima di aver acchiappato – si spera – la benevolenza del lettore con questo preambolo.

A cosa sono dovute le profonde perplessità che rigavano la nostra fronte all’esterno del rinnovato Teatro India (è bastato poco, nuova biglietteria, un bar, ma l’effetto si sente!), dove “L’Abisso” di Davide Enia ha riempito la platea per due settimane – e dove vi aveva debuttato l’anno scorso con un eguale successo – facendola crosciare di insistiti applausi?
È forse inutile ripercorrere il contenuto del lavoro: basterà ricordare che il tema sono gli sbarchi e i salvataggi dei migranti a Lampedusa (e non solo), tema mescidato e quasi risolto nella contemporanea analisi dei legami familiari orientata in senso decostruttivo della condizione patriarcale – analisi che l’autore intraprende conducendo con sé il padre nei suoi viaggi lampedusani. Sull’isola i due vanno per vedere con i propri occhi le operazioni di sbarco, le condizioni dei sopravvissuti, il sistema dell’accoglienza e della solidarietà, l’umana normalità isolana.

Il tutto risulta fuso in una forma alternata di monologo “secco” o “accompagnato” dalle chitarre di Giulio Barocchieri, lacerti di canti e un picco di vero e proprio ‘cunto’ siciliano. Ma il grosso de “L’Abisso” è nel racconto, reso in forma schiettamente letteraria, sempre accoppiato a quella gestualità smaccatamente didascalica, ammiccante al ‘parlar con le mani’ meridionale, che Enia ci ha abituati a conoscere. Una vera partitura, dichiaratamente mimica: la parola «enorme» ha la sua traduzione nel disegno di una forma alta sopra la testa; ad «amici di amici» le braccia ricostruiscono con chiarezza un duplice passaggio di contatti.
Ma cos’è “L’Abisso”? In che modo, con quali strumenti maneggia l’esperienza che ci vuole trasmettere?

Primo: non è documento né documentario – cioè non si tratta della trascrizione o dell’esposizione immediata (per quanto possibile) della realtà. Non è uno dei video dei rescue swimmer che Enia ha visionato per preparare il lavoro, per intenderci. E va bene.
Secondo: non è una forma per quel materiale. Spieghiamoci meglio. In un video pubblicato dal Teatro di Roma lo stesso attore/drammaturgo insiste dicendo che per raccontare questa tragedia occorre uscire dal solito sguardo, e inventarsene uno completamente nuovo. Ammesso che quello della migrazione sia un tema nuovo, e lo è sicuramente solo se lo consideriamo sullo sfondo della società capitalistica postcoloniale dell’opulenza, egli ha totalmente ragione. Salvo che quell’invocato sguardo nuovo (che in teatro corrisponde precisamente a una forma nuova o almeno a un nuovo linguaggio), l’autore palermitano non lo trova. È evidente che l’unione fra recitazione, ‘cunto’ e musica non è sufficiente.

A conti fatti, Davide Enia ci racconta di quelle storie nella maniera più tradizionale: il suo punto di vista vi si trasfonde completamente, esse vi si esauriscono. Ed è quello di un occidentale che fa i conti – fino a un certo punto – con la figura paterna, con la sua incapacità di comunicare, con i nodi di una trama familiare di sentimenti e legami. È il punto di vista di un intellettuale/artista occidentale, bianco, che si rinchiude a casa propria a confezionare marmellate d’arance per tre giorni dopo aver visto quei drammatici video dei salvataggi, e a cui la compagna chiede di aprire gli occhi e di «riconoscere che ha un problema». Un intellettuale che piange e piange e piange (l’anafora è letterale), e produce un racconto sentimentale, di commozione, che getta per l’ennesima volta lo sguardo dall’alto, un appassionato alto – perché negarlo? – verso il basso.

Ci si chiederà che cosa si pretende da questo intellettuale/artista bianco, si dirà che quella evocata non è una questione di forma: e invece è esattamente questo, poiché si tratta della possibilità, a cui Enia rinuncia, di raccontare con una forma finalmente convincente una tragedia di cui l’Occidente è responsabile, e su cui continua per lo più a versare (appassionate) lacrime. A un intellettuale/artista bianco è invece richiesto questo, non nuove lacrime ma una nuova forma. Ebbene, di ciò ne “L’Abisso” secondo chi scrive non vi è traccia.

Ora, una volta data per assodata tale rinuncia, quella a una forma dettata da tale contenuto (ambiziosa, magari, come la dodecafonia per parlare dello smarrimento dell’uomo europeo nel primo Novecento) e alla possibilità di un teatro incisivo, e accettato che al drammaturgo occorrerà pescare nella nostra tradizione per trovare un abito confacente al tema, sembra questione tanto morale quanto estetica quella che imporrebbe il distacco, la pulizia, l’uso di guanti sterili. E non perché la vicenda non tocchi umanamente – chi rimane impassibile al racconto del sesso delle migranti, accucciate nel fondo dei barconi, ustionato da urina, nafta, acqua salata? Agli stupri delle bambine? Anzi, proprio perché a tale orrore, inimmaginabile per noi, non saremo mai in grado di avvicinarci con l’ingombrante forma del nostro corpo intatto, dobbiamo usare il più raffinato degli strumenti di cui i secoli ci hanno dotato, a costi esorbitanti: la sensibilità della cultura, e una lingua affilata, precisa, esatta. Un tono asciutto, al limite monocorde. Altrimenti è imitazione, involontaria menzogna, persino.

Il racconto del viaggio di un migrante attraverso l’Africa per giungere sulle coste, le amputazioni, le violenze più efferate, non possono correre sopra un elegante tappeto di chitarra ritmato e avvolgente, che le veicola con tale indecente opportunità da farcele ingollare senza fatica. Di più, più sonoramente: rifare il gesto dell’uomo in preda alle onde, con gli arti quasi smorti, quasi svincolati da ogni volontà e affidati alla forza superiore dei marosi, riuscitissimo sul piano mimetico e attoriale, è un pugno nello stomaco non perché riesca a restituirci quell’immagine, ma perché la inquina con il senso ridicolo di un ‘fare finta’ in equilibrio con il sedere sulla sedia, di un’imitazione dal di qua. Di qua del mare e del mondo. Poiché noi siamo all’asciutto, asciutti dobbiamo avere la forza di essere.

È evidente a questo punto che entrambi i punti suddetti congiurano a una conclusione, valida anche in una temperie di deregulation teorica come la presente: il teatro sociale, che sarebbe più opportuno chiamare e soprattutto fare solo come teatro politico, se non trova un nuovo linguaggio, ha due possibilità: o è ruvido come un documento, anzi è un documento, che gratta la pelle tanto è fatto di materia, non formalizzato affatto; o lo è, formalizzato, ma a densità esasperate, facendo di quello scheletro materia a sé stesso. Un esempio a caso: “Excelsior” di Salvo Lombardo. (Per la verità ci sarebbe una terza via, ed è quella che Pagliarani definiva come «l’invenzione di nuovi significati o semantizzazione del linguaggio, cioè progettazione per la lingua […] soprattutto progettazione di utopia». Per farla breve: teatro epico. Ancor più breve: “Aldo Morto” di Timpano, oggi.)
Esistono casi ibridi, quarte, quinte vie, mostruosità inclassificabili, eccezioni che confermano la regola? Esistono eccome, ovvio, la realtà è sporca.
Ma insomma, quando si fa teatro politico, se non si ha la fortuna o la grandezza di imbattersi in una nuova dodecafonia – non tutti si nasce Schönberg, né Milo Rau – e occorre accontentarsi di raccontare alla buona, alla spiccia, nessun artificio della tradizione può essere considerato legittimo, tantomeno quelli che agiscono per via sentimentale – lo stesso Brecht ricordava che il più efficace a coinvolgere per vie emotive era stato “l’Imbianchino”, e oh, quanto volatile è l’emozione! Poiché se veramente i drammi della Storia che ci rotolano addosso nel quotidiano hanno bisogno di retorica e di formule per coinvolgerci, se l’orrore non lo vediamo quando ci balza agli occhi della mente ma abbiamo bisogno che ci prenda allo stomaco, allora vuol dire veramente che siamo così incruditi che non c’è più nulla che valga la pena di salvare.

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