Lancillotto e Ginevra di Giovanni Ortoleva: una nuova narrazione di un mito ridotto all’osso

Lancillotto e Ginevra (photo: Giulia Lenzi)
Lancillotto e Ginevra (photo: Giulia Lenzi)

Il nuovo spettacolo di Ortoleva, firmato insieme a Riccardo Favaro, ha debuttato al Fabbrichino di Prato. In scena Leda Kreider ed Edoardo Sorgente

Con “Lancillotto e Ginevra”, di cui è co-autore insieme a Riccardo Favaro, il regista Giovanni Ortoleva, dopo aver chiuso la trilogia dedicata alla ribellione a Dio (“Saul”, “Lo strano caso del Dottor Faust”, “I rifiuti, la città e la morte”), apre a un nuovo percorso, forse una trilogia – ancora non del tutto svelabile – che ha per tema l’amore.
«L’amore cortese sta alla base della creazione dell’idea dell’amore occidentale – spiega Ortoleva, parafrasando il saggio “L’amore e l’occidente” di Denis de Rougemont – E la storia di Lancillotto e Ginevra è l’esempio più lampante di questo tipo di amore per noi occidentali. Quello che proponiamo è un lavoro radicale sulla parola e sull’amore».

Il processo di stesura, che è durato più di un anno, trae ispirazione da diverse fonti: uno su tutti il film “Lancelot du Lac” di Robert Bresson del 1974, ma anche l’imponente testo di Sir Thomas Malory così come quello di Chrétien de Troyes. Un lavoro immenso, possiamo immaginare, di raccolta di dati, informazioni, letture, spunti di riflessione, tentativi, depennazioni.
Nella sua forma finale, un susseguirsi di sezioni-episodi che affondano la storia dei due amanti attraverso dei lampi, secondo una narrazione frammentata eppure organica, il testo di Favaro-Ortoleva è un contenitore di differenti registri e stili, un accumulatore eclettico di versi in rima e prosa, ora epico ora lirico, semplice e delicato e al contempo complesso e strutturato.

La scelta delle varie soluzioni per la messa in scena di questo testo va in una direzione opposta, eppure continua, allo stile barocco, eccentrico e un po’ kitch della precedente trilogia: abbiamo una scena buia, nera, vuota e chiusa (in questo aiuta l’allestimento del Fabbrichino di Prato, un ex capannone privo di quinte e passaggi di servizio ai lati della scena), come una camera mortuaria senza uscita; i nudi e neri muri della struttura a incorniciare lo spazio scenico; una serie di armature lucenti smontate e adagiate sul pavimento.
I due splendidi attori sono Leda Kreider ed Edoardo Sorgente, sempre presenti sulla scena, vestiti in nero in abiti contemporanei, da esistenzialisti francesi della Rive Gauche.
Il disegno luci, di Massimo Galardini, propone un’illuminazione spesso antinarrativa, tagliando e trasfigurando le forme degli attori con un tocco freddo, asettico e delicato; il disegno sonoro, una piattaforma minata di eco, suoni metallici, microfoni e distorsioni, la viva voce limpida degli interpreti, le assi di legno scricchiolanti del Fabbrichino, il rumore leggero dei passi a piedi nudi della Kreider e delle scarpe di vernice di Sorgente; le musiche di Pietro Guarraccino, che vanno dal pianoforte alle distorsioni elettriche passando per le stridenti trombe gloriose in stile Spaghetti Western.
Tutte scelte, potremmo dire, che in qualche modo disattendono le aspettative del pubblico di Ortoleva, visto che, come lui stesso ci racconta:«C’è chi si aspetta di rivedere i miei attori ballare, oppure vestiti di piume»; ma giacché è solo sperimentando e cambiando i registri che si procede nella crescita artistica, il regista fiorentino sembra voler percorrere una strada quasi antitetica alle sue recenti mise en scène.

Togliere, asciugare, tagliare, ridurre all’osso. Questi, dunque, alcuni dei principi chiave a cui risponde questo “Lancillotto” epurato, oltre il minimalismo del film di Bresson, di ogni decoro o richiamo didascalico, fatta eccezione per le armature in scena, vuoti pezzi smembrati di corpi assenti e astratti. In questo grado zero – o quasi – di elementi di supporto alla rappresentazione, sono la narrazione e la parola a farsi protagoniste di un racconto a due capace di scivolare con sorprendente agilità dal monologo al canto, dalla terza persona al coro.
Lo spettacolo appare espressione di un livello avanzato del teatro di narrazione (vedi “Kohlhaas” di Marco Baliani), un teatro di narrazione da terzo millennio, un teatro di narrazione a due voci e due corpi, dove il verbum è quanto mai generatore di immagini e storie, e principio attivatore – in potenza e in forza – di una scenografia verbale creata per (e con) lo spettatore: «D’altronde cos’è il teatro se non narrazione?!».
La misura del racconto evocativo è sottolineata dall’utilizzo, ad un certo punto, di due microfoni ad asta, con i quali lo scambio di battute fra i due amanti, le bocche quasi appiccicate al microfono, assume la dimensione di un radiodramma intimistico sia nella forma sonora che in quella visiva, come ci trovassimo davanti a uno studio di registrazione, fino alla distorsione sonora, in continuum con la terza sezione del “Faust” di Ortoleva, in cui la protagonista era condannata alla dannazione in un quadro sonoro distorto della voce a mezzo microfono, appunto.

In continuità con “I rifiuti, la città e la morte”, anche qui la convenzione, intesa come condivisione della finzione del gioco del “facciamo che io ero…”, è la chiave di realizzazione e di recezione di questo allestimento: non solo nel mostrare azioni e oggetti che non ci sono (il sangue, il pettine coi capelli della regina Ginevra, la foresta) ma anche nell’interpretare personaggi “altri” rispetto a Lancillotto e Ginevra, personaggi che vengono ad abitare all’occorrenza la scena come il nano della carretta, un cavaliere, una damigella nella foresta, attraverso i corpi e le voci degli attori, oltre a un certo gusto di ricerca della didascalia, o meglio del discorso indiretto, che viene enunciato in scena dando corpo vivo al racconto, come nella più antica tradizione dei menestrelli e dei cantastorie.

Punti di forza della pièce sono anche i vari input registici, la ricerca di immagini e azioni inusitate, come il parlare dentro il corpo cavo di un’armatura a terra, il continuo camminare in cerchio di Ginevra, il mal di testa di Lancillotto febbricitante, reso con un tromp-l’oeil fisico in cui le braccia della Kreider schiacciano da dietro il capo di Sorgente. Memorabile anche il quadro finale, in cui i due amanti, esausti dell’apocalisse che ha portato il loro amore, la fine del regno dei cavalieri puri della tavola rotonda, stanno appoggiati alla parete laterale, Kreider a terra e Sorgente in piedi dietro di lei, fronte pubblico, fissando il vuoto come un’inquadratura di un film di Ingmar Bergman, colpevoli e rassegnati al loro presente di solitudine e separazione.

Lo spettacolo di Giovanni Ortoleva è un costrutto articolato di parola e azione, una proliferazione di soluzioni a due corpi su una narrazione plurivoca che maneggia, dilatandola e contraendola, la storia di Lancillotto e Ginevra, fin quasi ad astrarla dalla sua valenza epica, conferendole una nuova, inaspettata, viva immagine.

LANCILLOTTO E GINEVRA
di Riccardo Favaro e Giovanni Ortoleva
regia di Giovanni Ortoleva
musiche di Pietro Guarracino
luci Massimo Galardini
con Leda Kreider e Edoardo Sorgente
Produzione Teatro Metastasio di Prato
con il supporto di Centro di Residenza della Toscana (Armunia -CapoTrave / Kilowatt), KanterStrasse, ResidenzaArtistica Olinda/TeatroLaCucina

Durata: 1h 5’
Applausi del pubblico: 5’

Visto a Prato, Fabbrichino, il 12 novembre 2022
Prima assoluta

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