Work in Progress: il lavoro è uno strumento dell’uomo, o l’uomo uno strumento del lavoro?

Work in Progress. Il lavoro prima di tutto?!
Work in Progress. Il lavoro prima di tutto?!
Work in Progress. Il lavoro prima di tutto?! (photo: Chiara Bianchini)
Si è concluso domenica scorsa, 27 maggio, il festival Work in Progress, settima rassegna tematica del Teatro Ringhiera di Milano, quest’anno dedicata al lavoro e quindi, necessariamente, anche alla crisi economica e politica che sta investendo il Paese.
Se il tema scelto si appoggiava sul vantaggio di una indubbia attualità, allo stesso tempo correva il rischio di cadere in formule stereotipate o in argomenti già troppo dibattuti.
Ma è con intelligenza, coraggio e onestà che la direzione artistica ha condotto il festival, non solo selezionando esibizioni di qualità, ma integrando gli spettacoli con eventi paralleli che hanno aperto al pubblico finestre sulla realtà concreta vissuta, patita, dolorosamente sentita dai lavoratori stessi, veri protagonisti della rassegna.

Quello che poteva quindi risultare come uno sterile scambio di posizioni ideologiche, alla maniera cui vuole abituarci la politica con la complicità della televisione, è invece rimasto nelle mani stesse dei lavoratori e nelle braccia delle loro coscienze ferite: non più fredde teorie e ciniche menzogne, ma un’emozionante confessione della sofferenza, della frustrazione e della delusione di un’umanità che finalmente comincia un cammino di consapevolezza della propria miseria e tenta un riscatto di sé e della propria dignità perduta.

In una sala teatrale quindi si piange, commossi da storie di diritti calpestati cui dobbiamo tutti inevitabilmente immedesimarci, si ride trasportati da un’ironia mai indelicata, ma soprattutto si riscopre la capacità di sorridere, intravedendo speranze cui potersi aggrappare, guidati da attori e attivisti che hanno rifiutato di abbandonarsi alla rassegnazione.

Significativo il sottotitolo del festival: la domanda “Il lavoro prima di tutto?”, spiega la direzione artistica, pone un quesito che, se di primo acchito pare smentire l’importanza stessa della tematica scelta, in realtà invita ad una rivalutazione meno alienante del concetto stesso di lavoro, che riporti in primo piano l’essere umano e faccia del lavoro uno strumento di crescita dell’individuo e non, come assurdamente sta avvenendo oggi, il contrario.

E se il teatro, attraverso il festival, si è aperto al sociale, non ha comunque dimenticato se stesso. Ha scelto, anzi, di cominciare proprio con una analisi delle proprie difficoltà.
Si è così partiti raccontando l’occupazione del Teatro Valle di Roma, esperienza che, pur nata dall’esasperata indifferenza dello Stato verso i mille problemi della cultura in Italia, è oggi il simbolo della capacità degli artisti di trovare una valida alternativa all’assenza di un governo credibile nel Paese.

Un’autoanalisi della condizione del teatro in Italia è stata portata anche dalla bravissima Matilde Facheris, che nel suo grottesco monologo “Lavorare stanca” (di cui Klp vi darà un resoconto dettagliato nei prossimi giorni) confessa tutte le difficoltà di chi ha scelto, con la recitazione, una professione priva di qualunque tutela, e per questo particolarmente esposta a insidiosi meccanismi di alienazione. Il suo sentirsi “vecchia e mai adulta” allo stesso tempo è il sentimento condiviso da un’intera generazione di trentenni, esclusi dalla possibilità di costruirsi un futuro e costretti ad una condizione di instabilità in verità adolescenziale anche alla soglia dei quarant’anni.

Ma se in Work in progress il teatro si è rivolto ai lavoratori, anche i lavoratori si sono rivolti al teatro.
Così dopo lo spettacolo “Ribellioni possibili”, della compagnia padrona di casa Atir per la regia di Serena Sinigaglia, vero incitamento al riscatto, venerdì 25 la scena è andata ai lavoratori autonomi del terziario, riuniti nell’associazione Acta, che attraverso il mezzo teatrale hanno raccontato i loro disagi in “Lo stato del quinto stato”.

Ancora testimonianze dirette dei lavoratori si sono succedute nei quattro giorni del festival, dando la parola ai licenziati dei Treni Notte Binario 21 in presidio alla stazione centrale di Milano e ai lavoratori in lotta dell’Esselunga di Pioltello, attraverso i “Ritratti di precari”, mostra fotografica e insieme inchiesta giornalistica di Chiara Schiaratura, e con l’intervento ironico ma graffiante di Mayday che, nel monologo “Silvia Interinale”, ha riassunto situazioni paradossali subite dai lavoratori precari.
Alla compagnia di danza Motus è stato invece affidato il compito di raccontare le morti bianche con il bellissimo spettacolo “Mattanza”.
Un festival quindi capace di dare le giuste risposte a un pubblico che, oggi più che mai, sente il bisogno di un’arte meno chiusa in se stessa e aperta invece alla problematicità del reale.  
 

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