Uno schiaffo morale tra le pareti della solitudine

Tahar Ben Jelloun
Tahar Ben Jelloun
Tahar Ben Jelloun (photo: mediatheque.montpellier-agglo.com)

Proprio così. Ci si alza dalle poltrone della Galleria Toledo schiaffeggiati moralmente ed emotivamente.
Lo spettacolo “Le pareti della solitudine”, in scena a Napoli questa settimana, emoziona, commuove e ci fa vergognare. Il lavoro, tratto da un romanzo/saggio scritto con un linguaggio simbolico e poetico tra il ’75 e il ’76 dello scrittore marocchino Tahar Ben Jelloun, è frutto della sua esperienza come psicologo in un centro di accoglienza per immigrati a Parigi.

Portato in scena da Prospero Bentivegna, viene presentato al Fringe Festival ’09 ed entra a far parte del progetto “Teatri della legalità”, rivolto a famiglie e scuole. La prima alla Galleria Toledo, svoltasi in un freddo e piovoso lunedì sera napoletano, vede poco pubblico, ma tanto basta a sentirci, come rappresentanti dell’Italia, bersaglio di accuse pesanti.

Nonostante la poca esperienza, dovuta anche alla difficoltà di espressione linguistica, i sette protagonisti (stranieri e provenienti da Burkina Faso, Bielorussia, Sri Lanka) usano i propri gesti, le proprie musiche, la propria cultura per urlare violentemente cosa significa essere extracomunitari in Italia.

Di pareti non ne esistono, perché il palcoscenico accoglie gli spettatori a scena aperta, con gli attori in piedi sul palco, gli sguardi rabbiosi e dolenti puntati sul pubblico che si accomoda in platea, le pareti di fondo denudate di ogni orpello e ornamento, nude nelle loro travi nere solcate dalle corde bianche.
Le mura si creano attraverso le aste, simbolo di balli e rituali africani, dritte su piedistalli e poste a semicerchio a dividere il palco in due: la prigionia dietro le sbarre, la morte davanti le sbarre.

Tre personaggi vengono imprigionati per motivi differenti: uno ha ucciso la moglie perché si prostituiva quindi non è degna di vivere, uno perché lavora in nero in un cantiere e un imprenditore italiano ben vestito e con le scarpe firmate lo frega, il più giovane, incarcerato per spaccio e  per disturbo alla quiete pubblica perché cantava una  canzone della sua terra in un locale, non parla nemmeno più. Tra lingua francese, dialetti africani, arabo, la pelle vira su diverse tonalità di ambra, diverse religioni e culture si mescolano, si delinea il panorama italiano visto con gli occhi degli extracomunitari. Adesso parlano loro, i veri e unici protagonisti.
Un uomo di colore, ben vestito, descrive positivamente i nostri connazionali, si aggira tra le scene, come un grillo parlante di altri tempi, completa le frasi degli attori, le ribalta, asseconda e condivide le scelte degli sfruttatori. Proprio lui si pone sul proscenio e comincia un’asta vendendo uno degli attori come fosse uno schiavo. La gente è attonita, poi risponde alla sua insistenza: “50 euro!” urla una voce divertita, e lui: “troppo per uno schiavo!”. Finirà allora venduto a uno spettatore per soli due euro, cifra, a quanto pare, anche superflua. Ci rendiamo conto di essere rimasti pietrificati sulle poltrone.

Dolcissima e amara la storia tra il giovane muto per scelta, o meglio per costrizione, e la giovane dello Sri Lanka: riescono a comunicare attraverso il canto, rispettivamente nella propria lingua, usando proprie sonorità.
Quando la ragazza decide di lasciare l’Italia, la furia del giovane muto esplode in pianti e urla, mentre il “grillo parlante”, costretto dalla rabbia e dai calci del ragazzo, traduce per il pubblico italiano tutta la crudeltà di cui l’attore si fa portavoce, per lui e per i suoi “fratelli”. Ci si chiede se le lacrime scendano veramente rigando quella pelle scura, tra recitazione e realtà.
Unico elemento leggero, se così si può definire, il ventiseienne di colore e le sue serate trascorse da “zia Teresa”, proprietaria di un bordello. Per soli 20 euro, il guadagno dello sfruttamento di una giornata, puoi avere l’amore di una donna, perché sei prigioniero di un paese che dice di ospitarti, ma solo il sesso – per gli extracomunitari – rimane libero. Allora l’orgasmo e l’agonia si somigliano molto. Troppo.
Eros e tanatos in un affresco terribilmente poetico che lascia gli spettatori affranti e pieni di vergogna, mentre la locandina non menziona il cognome di alcuni degli attori perché ancora in attesa di permesso di soggiorno, a ricordarci che spesso il teatro non riesce ad addolcire la realtà.

 

LE PARETI DELLA SOLITUDINE
di Tahar Ben Jelloun
adattamento: Giusi Marchetta, Prospero Bentivegna
regia: Prospero Bentivegna
interpreti : Anselme, Souleymane, Nestor, Alassane Doulougou, Maryia Lialiuk, Madusha Dilrushki Alosius, Oumarou
musicisti: Ibraim, Oumar
durata: 1h 20′
applausi del pubblico: 1′ 56”

Visto a Napoli, Galleria Toledo, il 14 dicembre 2009

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