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Le solite domande. Riflessione di fine anno non politically correct

Luci della ribalta
Luci della ribalta
Luci della ribalta – Buster Keaton e Charlie Chaplin
Finisce l’anno. Dopo festival, rassegne e stagioni varie, ecco sorgere una riflessione – tra le molte possibili – sull’eterno perché alcuni spettacoli girino e molto, pur senza meritarlo, ed invece altri, che dalla loro hanno qualità maggiori, talento, idee e magari sangue pulsante, siano relegati a pochissime repliche (nei casi migliori), in spazi talvolta poco conosciuti ed estranei ai circuiti più frequentati.

Molte volte gli spettacoli impegnati in lunghe tournée, che sulla carta hanno un appeal al quale pubblico e organizzatori sembrano non saper resistere (complice certo la fama, mediatica o televisiva, dei protagonisti in scena), una volta visti lasciano in chi assiste ben poco, ad eccezione di un senso di delusione, stupore, noia e quant’altro.

Vogliamo su questo finir d’anno essere particolarmente ‘non politically correct’, e siccome è sempre imbarazzante far dei nomi, stavolta faremo pure dei nomi, lanciando subito due esempi visti in questo 2013 (ma a cui se ne potrebbero certo aggiungere altri… e se volete, a fondo pagina, potrete farlo attraverso i commenti): “Ricorda con rabbia”, che per le caratteristiche di cui sopra annovera tra i suoi protagonisti Stefania Rocca, e “Il soccombente” che vede in scena niente meno che Roberto Herlitzka.
Assistere per comprendere.

Capita poi anche, dopo aver visto le interviste della nostra coppia Bianchi/Francabandera ai vari premiati Ubu 2013, di assistere a “Il principe” di Stefano Massini (elaborazione, scene e regia di). Che dire del lavoro? Se ne esce stanchi e provati, così come sembrano stanchi gli attori nel portarlo a termine e gli spettatori nell’applaudirlo alla fine.
Al di là dello spunto drammaturgico iniziale, sufficiente a tenere in vita i primi venti minuti, giungere alla fine è assai faticoso, tempestati come siamo di azioni sceniche e balletti (soprattutto nella seconda parte) che non sembrano affatto necessari, bensì scelti per condire la portata e allungare il brodo affinché basti per tutti.
La metafora culinaria pare essere – a chi scrive – la più adatta, visto il lavoro, dove in scena ci sono cinque cuochi che si agitano e dimenano per trovare ingredienti adatti a cucinare un principe che sappia guidare lo Stivale, in una scenografia che tanto deve a “Giù” di Scimone e Sframeli, premio Ubu 2012 per la migliore scenografia (per rimanere in tema).

Tornando alle interviste sopra citate, mi preme menzionarne un altro paio: quella fugace a Roberto Abbiati, colui che ha ideato e manualmente creato i premi Ubu di questa edizione; uno che letteralmente li fa, in sostanza, ma meriterebbe anche di riceverli. E quella ad Antonio Rezza, che afferma: “Quando noi portavamo i lavori da Franco Quadri e chiedevamo: Come mai con questi lavori noi non vinciamo l’Ubu? Lui diceva: voi siete indipendenti, non vincete”.
D’accordo, niente di nuovo sul fronte occidentale, anche perché, si dirà, Rezza e Mastrella il premio (alla fine) l’hanno ricevuto. Eterna lotta tra teatro “omologato” e teatro indipendente? Ma indipendente da cosa? Da mode, critici che non hanno neppure visto gli spettacoli, circuiti, organizzatori, o teatro indipendente da se stesso? Forse, in una formula, dal mondo che “piace alla gente che piace”, direi pensando a “Menzogna romantica e verità romanzesca” di Girard.

Siamo sempre più vicini ad un teatro alla ricerca di consensi, a tutti i costi, sia di un pubblico automa, di chi può influenzare la riuscita del prodotto, la tournée, la eco mediatica: il richiamo di critici e spettatori che, a loro volta, creano spirali prolifiche sembra essere spesso la ragione “che muove il sole e l’altre stelle”, perdendo di vista la “necessità” del fare teatro.
E con questo si torna ai peggiori vizi dell’albero Italia, che sempre più offre i suoi frutti rancidi, carichi di semi sterili che finiscono col non germogliare. Già, forse questo fine anno di Ubu, di sorrisi e ringraziamenti, di premi che portano con sé sempre commenti e polemiche, rivincite e abbandoni, stimola ancor di più riflessioni.

Non andremo a dire “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”, non vogliamo polemizzare e accusare citando i soliti spettacoli, registi, attori con tanto di stuolo di consensi, bensì, piuttosto, porci delle domande, chiederci dove stia la ragione per non parlare di attori interessanti, di lavori fatti con passione e per giunta necessari in quanto vitali. A volte bastano domande.

Così ne faccio alcune a mo’ di esempio: quanti dei tanti che assisteranno e hanno assistito o che programmeranno o hanno programmato “Il principe” di Massini hanno visto (o vedranno) un lavoro come “Una tazza di mare in tempesta” di Abbiati, straordinaria trasposizione del Moby Dick di Melville?
In quali e quante stagioni si sono programmati (o si programmeranno) i lavori di Gaetano Ventriglia, autore, tra gli altri, di “Kitèmmùrt”, a parere di chi scrive uno dei più bei lavori degli ultimi anni?
A quanti spettatori è data la possibilità di conoscere la trilogia di Teatropersona – “Beckett Box”, “Trattato dei manichini” e “Aure” -, il talento di Fabio Monti di EmmeA’ Teatro o la dolcezza scenica di un David Batignani?
Potrei andare avanti, ma mi sentirei noioso, così come sa esserlo spesso il teatro.

Anche Klp, mai esente da colpe, lancerà domani sera, per la quinta edizione, il suo “premio in cui non si vince niente”, ossia il Last Seen di fine anno, per scegliere insieme (noi e voi) lo spettacolo del ‘nostro’ anno. E concludere il 2013 cercando di parlare di teatro senza annoiarci troppo, che è poi da sempre la missione di Krapp.
 

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