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Ombre e letteratura: De Maria, padre e figlia, nella Torino noir

|Cora De Maria

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Vi è stato chi, nel periodo del lockdown, ha saputo sfruttare le giornate immergendosi in progetti che forse, senza questa sosta forzata, non avrebbero mai visto la nascita.
Parliamo di Corallina De Maria, musicista e cofondatrice, insieme ad Alberto Jona e Jenaro Meléndrez Chas, della compagnia Controluce Teatro d’Ombre. “Ero a casa, da sola e, lavorando esclusivamente in teatro, per me lo smart working non è stato possibile – spiega Cora De Maria – Così, avendo molto tempo libero, ho pensato a come realizzare un teatro che avesse bisogno di quasi niente, quello che Guido Ceronetti [a cui ha dedicato il suo ultimo lavoro, ndr] considerava il teatro massimo, il più vero”.

E’ stato quindi proprio il periodo di confinamento imposto dalla pandemia a offrirle l’occasione di riavvicinarsi al romanzo del padre, Giorgio De Maria, che nel 1977 aveva pubblicato “Le venti giornate di Torino”. Un romanzo che non ebbe molto successo all’epoca, e che poi cadde nel dimenticatoio, ultima opera letteraria di De Maria, anch’egli musicista e critico teatrale per la redazione torinese de l’Unità.
La particolarità è quel che avviene a distanza di quarant’anni esatti dalla prima pubblicazione: viene infatti scoperto da un editore statunitense e tradotto in inglese, ottenendo un grande interesse di pubblico al di là dell’oceano (e aprendo la strada ad una nuova edizione italiana). Cora De Maria decide di riprendere in mano il libro: “L’ho letto, e con stupore, solo quando è stato pubblicato in America: posso dire che il mondo l’ha scoperto per me; e l’ho amato moltissimo, iniziando a conoscere un aspetto di mio padre fino ad allora sconosciuto”.

De Maria riparte, per questo progetto, da quel difficile rapporto col padre che ormai non c’è più per mettere in scena quest’opera “riscoperta”, attraverso un lavoro del tutto artigianale di teatro d’ombre che la renderà davvero protagonista unica dello spettacolo: “Sono una ombrista e non un’attrice, ma stavolta mi sono improvvisata tale, imparando anche 50 minuti di testo”.

Il risultato è, come annuncia lo stesso Alberto Jona nel presentare al Festival Incanti la prima assoluta de “Studio per le Venti giornate”, “un teatro da camera” per pochi (i tempi Covid lo impongono), che vede riuniti, chi a terra, chi su qualche panca, una serie di spettatori, molti dei quali con un legame in qualche modo affettivo col romanzo.

Al centro della vicenda vi è quella Torino città magica e maledetta, che la prefazione americana descriverà come una “sfarzosa necropoli” accendendo l’interesse degli appassionati del genere.
A smuovere l’indagine del narratore (anonimo) del romanzo, sono le morti succedute – dieci anni prima – in quelle misteriose 20 giornate estive di cui nessuno vuole più parlare. A partire dall’omicidio di Giovanni Bergesio, per proseguire con Rosaura Marchetti, morti efferate rimaste senza risposte.

Cora De Maria

La vicenda viene così riproposta, evidentemente ridotta per la scena (“E’ uno spettacolo di strada: era inevitabile tagliare”), rendendo protagoniste le mani e la voce di Cora De Maria che, attraverso quel piccolo teatrino da camera, porta alla conoscenza del pubblico alcuni dei protagonisti del romanzo, in un noir punteggiato da telefonate anonime, statue, forze oscure che muovono pedine dall’alto e corpi smembrati.

Un lavoro di riduzione non facile, ma che il teatro d’ombre riesce a rendere perché ha la capacità di svelare, illuminare o avvolgere nel dubbio: “L’ombra qui non è mai didascalica – prosegue Jona – scende nel romanzo per astrazioni e similitudini”.
E se il rischio, nel fare salti di genere fra arti, è sempre presente (nelle trasposizioni cinematografiche dei romanzi, è spesso il libro ad averla vinta sul film), in teatro queste operazioni sono ancora più elaborate, gli strumenti di comunicazione col pubblico troppo differenti per mettere a paragone manufatti così diversi tra loro. Soprattutto in questo contesto, in cui si è deciso di recuperare una tradizione antica per un tipo di spettacolo ‘agile’, adatto ad essere presentato nelle case ma anche nelle strade o nei giardini, un po’ come avviene per il kamishibai giapponese, che tanto affascina i più piccoli: in questo caso, una struttura in apparenza semplice, in cui gli elementi indispensabili sono un po’ di buio e qualcuno che ascolti.

Si entra così nell’atmosfera protetta di un racconto intimo, seppure per certi aspetti truce; protagonisti una piccola scatola di scena realizzata da Alice Delorenzi e una sola artista a raccontare la storia, mentre accompagna la trama con l’artigianato del suo teatro d’ombra e la musica di violino e violoncello curata da Umberto Fantini. “Per la prima volta, come Controluce, abbiamo unito alle ombre la parola, mentre noi di solito lavoriamo con la musica”, sottolinea Cora.

Il suggerimento è di vedere prima lo spettacolo, e solo dopo approfondire la storia recuperando il libro. Che, nella ripubblicazione di Frassinelli del 2017, si è arricchito della postfazione di Giovanni Arduino (fra i traduttori di Stephen King in Italia, e a sua volta autore de “Il diavolo è nei dettagli: la storia de Le venti giornate di Torino”), ottimo nel puntellare – rigorosamente in ordine alfabetico – alcuni aspetti della storia di questo romanzo, facendo luce su curiosità e apportando utili stimoli di riflessione.

L’atmosfera distopica che aleggia nelle pagine ben si presta ad essere rivisitata dal teatro d’ombre: ci si addentra in una Torino che dell’atmosfera estiva ha poco se non la siccità e un lago prosciugato, in una città invasa da una anomala insonnia collettiva, da personaggi che si aggirano per il centro storico come fantasmi, da grida misteriose e orrendi omicidi. Su tutto serpeggia la presenza di una cupa biblioteca, voluta allestire da alcuni giovani “perbene” al Cottolengo (istituto che da sempre a Torino si occupa di opere assistenziali): è in questa biblioteca che i giovani invitano chiunque a portare manoscritti autobiografici, scritti di ogni tipo, spesso rivelatori di elementi di follia e di grandi inquietudini negli autori. Chiunque porti i propri manoscritti potrà leggere quelli altrui, “in un continuo scambio voyeuristico supervisionato e incentivato dall’alto”, sottolinea Arduino, elemento che fa accostare questa biblioteca agli attuali social network, che sarebbero nati solo decenni dopo la stesura del romanzo, così come alla ormai imperante e selvaggia “opportunità” del self-publishing.

Un romanzo ricco di significati simbolici e rimandi anche alle vicende dell’epoca, quando quella che, per tanti decenni, è stata considerata la città-fabbrica per eccellenza era stata travolta dalla stagione del terrorismo degli Anni di Piombo.
Al lettore più maturo il ‘gioco’ di scoprire a chi l’autore si sia ispirato per alcuni personaggi, realmente vissuti a Torino in quel periodo, così come riflettere su allegorie, previsioni e metafore.

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