Les contes d’Hoffmann: Livermore li affronta alla Scala

Photo: Brescia/Amisano – Teatro alla Scala
Photo: Brescia/Amisano – Teatro alla Scala

E’ di Jacques Offenbach la nuova produzione del teatro scaligero. Vittorio Grigolo nel ruolo del protagonista

“Les contes d’Hoffmann” (I racconti di Hoffmann) è l’unica opera in costante repertorio a cui possiamo assistere di Jacques Offenbach, compositore francese dalle origini tedesche, perché la maggior parte delle sue composizioni vengono confinate nel genere dell’operetta, pur avendo bisogno – come si vedrà – di un allestimento di grande varietà e imponenza.

L’opera che abbiamo visto con estremo interesse al Teatro alla Scala è monumentale, divisa com’è in cinque parti/atti su libretto di Jules Barbier. Tratta da una pièce scritta nel 1851 con Michel Carré, è ispirata a tre racconti dello scrittore e compositore romantico E. T. A. Hoffmann: “L’uomo della sabbia”, “I confratelli di Serapione” e “La storia del riflesso perduto”.
Il compositore morì prima di completarne la strumentazione, terminata poi in seguito da Ernest Guiraud. La prima rappresentazione assoluta avvenne all’Opéra-Comique di Parigi il 10 febbraio 1881.

Le cinque parti di questo capolavoro musicale, del quale abbiamo diverse versioni, sono legate insieme dalla presenza dello scrittore stesso, spesso in compagnia dell’amico (mezzosoprano) Nicklausse. Nei tre atti intermedi protagoniste sono invece altrettante presenze femminili: Olympia, Antonia e Giulietta, al centro dei tre differenti racconti dello scrittore.

L’azione si sviluppa in diverse città durante i primi anni del XIX secolo: mentre il prologo e l’epilogo sono ambientati a Norimberga, gli atti II, III e IV si svolgono rispettivamente a Parigi, Monaco e Venezia. Ed è appunto a Norimberga, precisamente nella taverna di mastro Luther, frequentata da un folto gruppo di studenti, che inizia l’opera.
La Musa prega Hoffmann di dedicarsi all’arte e di lasciar stare il vino e la donna di cui è innamorato, per poi prendere le sembianze di Nicklausse.
Il poeta, per consolarsi, decide di intrattenere i clienti cantando un’aria comica su un nano di nome Kleinzach, a cui gli astanti rispondono. Ma lo struggimento d’amore rimane, ed è rivolto alla famosa cantante Stella, che si sta esibendo nel “Don Giovanni” al vicino Teatro dell’Opera, concupita anche dal consigliere municipale Lindorf, che si burla del poeta.

Hoffman, ferito nell’orgoglio, inizia allora a raccontare ai presenti le sue esperienze sentimentali con tre donne del passato (Olympia, Giulietta e Antonia), le cui caratteristiche si trovano tutte riunite in Stella, tre amori a loro volta contrastati da altrettante figure antagoniste: Coppélius, Dapertutto e Docteur Miracle.
Nel primo racconto Hoffmann si innamora perdutamente di Olympia, la figlia di uno scienziato, il fisico Spalanzani, ragazza che scopriremo poi essere una bambola meccanica inventata dallo stesso scienziato, che parla poco ma canta meravigliosamente (“Les oiseaux dans la charmille”), e che verrà distrutta dal commerciante Coppellius (imbrogliato da Spalanzani), che era venuto per chiedere di saldare il debito per la fabbricazione degli occhi di Olympia.

Nel secondo atto il nostro poeta si innamora invece di Antonia, la figlia del notaio Crespel, a cui Offenbach regala una meravigliosa aria (“Elle a fui la tourterelle”): meravigliosa e pericolosa perché una malattia mortale, provocata proprio dal canto, minaccia Antonia, la stessa che ha già tolto la vita a sua madre.
Il padre proibisce a Hoffmann di vedere la figlia, che ciò nonostante amoreggia con lei (“C’est une chanson d’amour”) sino a quando il ritorno di Crespel li obbliga a separarsi, e il poeta a nascondersi.
Anche qui entra in gioco un antagonista, il Dottor Miracle, che inducendo la ragazza a gorgheggiare, complice anche un ritratto della madre che inizia miracolosamente a cantare, alfine la porta alla morte.

Protagonista del terzo atto veneziano è invece la cortigiana Giulietta, che ha organizzato una grande festa nella sua casa. E’ lei che, con Nicklausse, canta la famosissima barcarola (“Belle nuit, ô nuit d’amour”) a cui Hoffmann risponde con un chant bacchique, già pronto per una nuova avventura amorosa.
Giulietta presenta Hoffmann ad altri due suoi ammiratori, Schlemil, con il quale la giovane ha una relazione, e Pitichinacchio.
Ma anche qua qualcuno gli rompe le uova nel paniere: appare infatti il sinistro Capitano Dapertutto, dotato di poteri magici, che seduce Giulietta promettendole un preziosissimo gioiello (“Scintille, diamant”) se riuscirà a privare Hoffmann del suo riflesso, così come precedentemente ha tolto a Schlémil la sua ombra.
La donna ubbidisce: attira a sé il poeta, lo circuisce e lo deruba del suo riflesso, deridendolo. Accecato d’ira, Hoffmann sfida a duello Schlémil e lo uccide. Ma Giulietta gli sfugge comunque, imbarcandosi su una gondola con il servitore Pitichinacchio, mentre Nicklausse trascina via l’amico per salvarlo dall’arresto.

Il finale dell’opera si svolge di nuovo nella taverna di mastro Luther: il poeta, finiti i tre racconti, invita gli astanti a bere in onore delle tre donne in cui si sommano i diversi aspetti di una sola, Stella, acclamata fuori dal locale, alla fine dell’opera. Lindorf si affretta a raggiungerla, e riappare allora la Musa nelle sue sembianze divine che, come all’inizio, prega Hoffmann di dedicarsi principalmente all’arte, perché la vita (e soprattutto l’amore) sono colmi di disillusioni.
A testimoniare questa tesi si sentono le voci di un coro: “On est grand par l’amour et plus grand par les pleurs”. Il poeta, turbato, si unisce al canto.

Un’opera varia e piena di incanti musicali, questa del compositore francese, che riesce con incredibile perizia a ridonarci una grande varietà di atmosfere, ora passionali, ora misteriose, ora melanconiche.
Come si può notare dalla composita trama, così ricca di diversi rimandi, è difficilissimo rendere scenicamente in modo plausibile tre storie che hanno al loro centro focale il disinganno della passione amorosa, così impregnate di fantastico e di situazioni bizzarre, dove lo spazio e il tempo giocano a rimpiattino tra di loro.

Essendo abituati, nel passato, a edizioni piene di colori e di spazi affollati, dalle invenzioni mirabolanti, abbiamo fatto un po’ fatica ad entrare nell’allestimento realizzato da Davide Livermore, regista che seguiamo da diverso tempo e spesso amiamo.
Livermore realizza una versione apparentemente in sottrazione, senza l’utilizzo di grandi immagini, che forse lo avrebbero aiutato in questa impresa. Ancora una volta, in modo meno eclatante ma più allusivo, si serve dei fidi Giò Forma per le scenografie, Antonio Castro per le luci e Gianluca Falaschi per i costumi.

Livermore accende il suo (e il nostro) sguardo soprattutto sul colore nero come sinonimo di morte, che ci accompagna da subito con la dipartita simbolica del nostro protagonista. Ma attraverso un tapis roulant lo vediamo poco dopo ritornare alla sua macchina da scrivere, per evocare con la scrittura impregnata di fantastico le tre donne della sua vita.

Con coerenza, nei tre atti centrali – sempre presente lo spirito del diavolo, rappresentato da un nano – dominano rispettivamente delle statue, un pianoforte e dei grandi specchi.
Con richiami anche al musical di Broadway, le invenzioni registiche migliori sono quelle di calibrata fattura, come l’apoteosi di occhiali e occhi nell’atto di Antonia, avvolta da una grande rete nera che l’avvinghia al pianoforte, o la bambola meccanica del primo quadro, che la regia, con pochissimi accorgimenti, riesce a far diventare umana, vera nella sua commovente esibizione.

Venezia è simboleggiata teatralmente da due altalene e da grandi veli che esondano su tutta la platea, mentre sul palco il coro – con decine di ombrelli – guarda da lontano la festa di Giulietta. Le ombre vengono evocate illuminando un semplice velo bianco, mentre il nostro poeta rema su una gondola a forma di bara.

Come hanno notato in molti, vi sono troppi accorgimenti secondari, a volte in contraddizione fra loro, che imbrogliano lo sguardo dello spettatore; troppo presenti e insistenti ci sono parsi ad esempio gli spiriti del male in calzamaglia nera. In questo senso le sofisticate ombre realizzate dai torinesi di Controluce, che sostituiscono con accortezza compositiva e in modo artigianale i video, realizzate per creare le atmosfere gotiche dei racconti, rischiano a volte di perdersi e di essere poco valorizzate nei troppi segni che giungono allo spettatore dal palco.

La parte vocale ha avuto la sua autentica star in Vittorio Grigolo, che disegna un Hoffman travolgente, capace di tener testa a una parte che lo vede in scena sempre in modo spasmodico. Bene, nella loro diversità, anche le interpreti delle tre creature femminili: Federica Guida come Olympia, alle prese con l’ostica aria della bambola (“Les oiseaux dans la charmille”), Eleonora Buratto, di cui abbiamo già tessuto le lodi in altre occasioni, come lussuosa Antonia, che in proscenio ha ammaliato tutti con i suoi pianissimi in “Elle a fui, la tourterelle”; infine Francesca di Sauro come Giulietta.
Meno convinti ci ha trovato Luca Pisaroni, che rende troppo uniformi i ruoli dei cattivi.
Bravissima Marina Viotti nella doppia veste della Musa e di Nicklausse.

La direzione di Frédéric Chaslin non ci ha sempre convinto; la leggerezza tutta francese della musica di Offenbach, pur intrisa di tratti misteriosi, ci è arrivata solo a tratti. Molto efficace, invece, il Coro diretto da Alberto Malazzi.

Les contes d’Hoffmann
Jacques Offenbach
Opera fantastica in un prologo, tre atti e un epilogo
Libretto di Jules Barbier
Nuova produzione Teatro alla Scala

Orchestra e Coro del Teatro alla Scala
Direttore Frédéric Chaslin
Regia Davide Livermore
Scene Giò Forma
Ombre Controluce Teatro d’Ombre
Costumi Gianluca Falaschi
Luci Antonio Castro

CAST
Olympia Federica Guida
Giulietta Francesca Di Sauro
Antonia Eleonora Buratto
Stella Greta Doveri*
Hoffmann Vittorio Grigolo
Lindorf/Coppelius/Dottor Miracle/Dapertutto Luca Pisaroni
Nicklausse/La Muse Marina Viotti
Hermann/Schlemil Hugo Laporte

Andrés/Cochenille/Frantz/Pitichinacchio François Piolino
Luther / Crespel Alfonso Antoniozzi
Spalanzani Yann Beuron
Nathanael Néstor Galván
Un voix Alberto Rota

* Solista Accademia Teatro alla Scala

Durata spettacolo: 3h 40′ ca. inclusi intervalli

Visto a Milano, Teatro alla Scala, il 31 marzo 2023

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