Lettere dalla notte di Nelly Sachs. Chiara Guidi e il racconto, oggetto fra noi

Photo: Nicolò Gialain
Photo: Nicolò Gialain

Il cuoco Ding seziona l’enorme carcassa del bue. Lo immagino in piedi, i suoi movimenti sono sicuri, non guidati da una tecnica intesa come attuazione di una regola “fuori”; essi sono tecnica e perciò se ne dimenticano, rifiutano di nominarla. Come consigliavano i trattatisti rinascimentali, mostrano come facile qualcosa di difficile. Seguono lo spirito.
Due sono i suoni che l’operazione produce, intervallati: hua quando Ding afferra l’animale e huo quando il coltello colpisce. Il principe vede l’esibizione involontaria del cuoco, ne ode i respiri timbrati dalla vocalità, l’atto tradotto in suono (il racconto codificato di ciò che avviene, nel momento in cui avviene) e se ne stupisce. Quale mirabile tecnica! Il suo andamento è ordinato, ritmico, ai suoi occhi è stupefacente, sublime, sembra una danza. Le azioni sono condotte ciascuna al suo buon fine senza inciampi, con archi che mi figuro precisi e che si disegnano nelle carni del bue sonando netti.
All’ammirazione del principe, il cuoco risponde: non è stato breve l’apprendistato, quell’alternarsi ritmico di movimenti perfetti (com’è ritmica ogni perfezione, quale che sia la mistica a cui si confà) è invece raggiunta tramite una miriade di piccoli accorgimenti, negli anni fatti più fluidi, e di domande all’oggetto, il quale con l’evidenza della propria materia risponde: qui una cartilagine, là una giuntura o una connessione, più sopra l’ostacolo di un osso. Il coltello impara la strada in un dialogo con gli oggetti, sempre diversi, della sua opera.

Con questo racconto dello Zhuangzi, «che fa pensare», comincia la settimana romana al Teatro Quarticciolo di Chiara Guidi (dall’8 all’11 maggio scorsi), nell’incontro dal titolo “Libertà di movimento”, a cui seguiranno tre giorni di prove insieme a un coro di cittadini partecipanti alla lettura scenica di “Lettere dalla notte di Nelly Sachs”, performance di cui parlammo in occasione del Festival delle Colline Torinesi 2017 (ricordiamo brevemente qui che Nelly Sachs fu una poetessa e scrittrice tedesca di famiglia ebraica che, dopo avere ricevuto l’ordine di presentarsi a un campo di lavoro, nel 1940 fuggì in Svezia, dove visse fino alla morte, avvenuta nel 1970; nel 1966 venne insignita del Nobel per la Letteratura).

L’incontro preliminare, slegato dal lavoro teatrale vero e proprio, è un laboratorio aperto, la prima «trasferta» della pratica regolare tenuta al Teatro Comandini dal 2014 con insegnanti cesenati.
A Roma la provenienza è più diversificata, i partecipanti sono volontari che hanno raggiunto l’incontro grazie a una manifestazione d’interesse, e la Guidi mostra la stessa abilità che occorre al cuoco nel saper dirigere la lama tra soggetti sempre diversi, con cui occorre imparare a trattare. Così, la conversazione attorno al principe e al suo cuoco è lunga, dolcemente corretta da Chiara non verso un obiettivo («Questo laboratorio non ha un fine, ma una finalità sì»), aperta ai panorami ampi come all’acuta puntiforme acribia.
Quasi due ore, e la sensazione è che sarebbe potuta durare ancora: ora è la parola “principe” ad essere prescelta come regolatrice dell’intera trama, dei significati sottostanti, e si prova a leggerla come una dialettica quasi tra classi, quella che sa fare e quella che no; ora salta agli occhi la parola “spirito”, ed è la vaghezza dell’“aver spirito”, che non è coraggio, non è umorismo, ma un insieme di sapere e volere; ora ci si concentra sulla carne del bue, ora sulla contingenza che esso sia morto, e che l’esercizio che ha sviluppato l’abilità sia condotto a costo ridotto, non sopra una pelle viva; ora siamo tutti dentro al mistero del suono prodotto dal cuoco, quasi verbum ordinatore, materia e materiale del racconto insieme.
Quasi ogni parola potrebbe essere usata come centro di gravità, mai intellettualisticamente, sempre attualizzata senza vergogna nella vita pratica, reale. È il metodo che conta: dirittura nella ricerca e flessuosità nell’accogliere una voce inattesa, anche gentilmente contrastante.

Anche qui, come sempre in ogni incontro con l’universo (in espansione, nei suoi tre rami) della Socìetas Raffaello Sanzio, è la ricerca inesausta l’obiettivo e insieme la richiesta essenziale a chi “ci sta”: una ricerca compiuta in un ambiente che si fa sempre immancabilmente fertile, sia esso un laboratorio di movimento coreografico, sia la costruzione di un effimero coro attorno a Nelly Sachs o alla tragedia sofoclea, sia una lettura scenica, sia la spaventosa riscrittura, ad esempio, dello Zauberflöte.

È un ambiente, quello dei Guidi e Castellucci, a cui si addice la parola “gravità”, a patto che sia scorporata nei suoi due significati: quella forza che ci tiene a terra è come allentata, tanto da permettere balzi non comuni, tra prospettive e spazi lontani, mentre la gravitas, la serietà, la ponderatezza dell’operazione intellettuale è accarezzata con vero amore, e disegna una casa umanista, rigorosa, piena di luce e d’ossigeno.

Qui, ora, sul palco del Teatro Quarticciolo rischiarato dalle luci di servizio, svisceriamo coralmente la pagina dello Zhuangzi in una sorta di esegesi non tecnica, non scientifica e nutrita però di scienza e tecnica, senza timidezza ma senza indulgenti eccessi analogici. La riscriviamo dieci volte, tutti tesi allo sviluppo del racconto come comunicazione e come «oggetto tra noi» su cui facciamo perno per tenderci parole. E dunque, cose.

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