L’Hamlet tecnico e precario di Andrea Baracco & co.

L'Hamlet in sinergia di Baracco
L'Hamlet in sinergia di Baracco, Santasangre, Biancofango & co. (photo: teatrodiroma.net)
L’Hamlet in sinergia di Baracco, Santasangre, Biancofango & co. (photo: teatrodiroma.net)

Il Teatro di Roma inaugura «Shakespeare alla nuova italiana», un progetto che quest’anno porterà nelle sale capitoline dirette da Antonio Calbi nove riletture del bardo per antonomasia.
Il debutto è stato affidato a questo “Hamlet”, diretto da Andrea Baracco (che ha alle spalle la recente esperienza shakespeariana del “Giulio Cesare”) in collaborazione con Francesca Macrì (Biancofango) e Santasangre (Luca Brinchi e Roberta Zanardo), compagnia le cui sperimentazioni visive e drammaturgiche ben conosciamo, e che qui si concentra sulle scenografie multimediali.

Sulla profana sacralità del testo di Amleto, Baracco e Macrì scelgono d’intervenire poco, come probabilmente è saggio fare quando s’affronta il teatro elisabettiano: ci sono dei tagli e una riduzione dei personaggi (che qui sono in tutto dieci, cassando molti secondari), ma il rapporto con il testo è sostanzialmente fedele, scevro di strumentalità.

L’operazione più evidente, ma anche troppo facilmente simbolica, è lo spostamento del celebre monologo in chiusura, dopo il finale sanguinante, e il fatto che a recitarlo sia, dopo l’attacco di Amleto, l’Orazio di Michele Sinisi: scelta, la seconda, che ci è sembrata ben riuscita, soprattutto perché Sinisi riesce a trovare per una sfida così difficile (insomma, si tratta pur sempre di sfilare ad Amleto il monologo più celebre della storia del teatro!) una postura vocale originale, dimessa, scalcinata.
Ho la sensazione che su questa buona impressione abbia influito il ricordo dei personaggi di Michele Santeramo cui l’attore ha dato vita, cioè uomini vittime della crisi e dello spaesamento sociale: un Amleto precario, in senso non intellettuale ma economico, è forse una delle intuizioni (ma quasi subliminale) più intriganti del lavoro di Baracco-Macrì.

Amleto, appunto: inevitabile chiave di lettura dell’intera drammaturgia, l’interpretazione di Lino Musella sottolinea molto le nevrosi, gli scatti irrazionali; questo principe di Danimarca è un po’ emo e un po’ Arancia Meccanica (vedi l’uso delle mazze al posto delle spade, e una certa somiglianza fra Musella e il Malcolm McDowell diretto da Kubrick). Baracco deve aver chiesto a Musella di lavorare sulle diffrazioni retoriche: più volte Amleto ripete salmodiando la stessa frase e saltella nei momenti più tragici dei monologhi, entrando in risonanza con i beat dell’accompagnamento elettronico. Di fronte all’usurpatore Claudio, questo Amleto è terrorizzato: il regista gli fa assumere, in particolare, certe pose che ricordano quelle degli zanni nella Commedia dell’Arte, quando nascondono con furbizia ma anche senso d’inferiorità le loro beffe. Il risultato di tutto ciò è un Amleto intrigante, piacevole dal punto di vista tecnico, ma senza lo spessore giusto per rinnovare, con una diversità adeguata all’oggi, la sua forza perturbante.

Gli altri personaggi, a parte l’efficace e già citato Orazio di Sinisi, non riescono ad uscire dalla scia di una certa affettazione: Ofelia (coi leggins), Gertrude, Laerte, pur traendo vigore dalle capacità fisiche e vocali dei reciproci interpreti, rimangono irrigiditi come pedine degli scacchi dalla trama di artifici scenici che Baracco, Macrì e Santasangre hanno messo in atto. Penso agli inserti recitativi colloquiali volutamente evidenziati (Amleto: «Non siamo d’accordo? E che problema c’è!»); all’amplificazione della riflessione metateatrale, con Amleto che, parlando degli attori, invita a trattarli bene e soprattutto a pagarli in tempo (il pubblico ride molto; ma il pubblico romano, si sa, è costituito per gran parte di addetti ai lavori: una strizzata d’occhio, quindi, più che un’idea originale); al “play within the play” techno-pop (ma temo di non essere abbastanza glamour o dj-settoso per trovare l’aggettivo giusto per descriverlo); alla tinta nera con cui i personaggi uccisi si trasformano in “umbrae”, rimanendo sul palco dimidiati dalla vernice; a certi stilemi televisivi mescolati alla gestualità.

Manca da dire della scena pensata dai Santasangre, che da una parte ha la sua solita forza evocativa, ma dall’altra contribuisce non poco a quell’effetto di formalità di cui dicevamo: una schiera variabile di pannelli semovibili ospita proiezioni di video o immagini (soprattutto gambe e braccia, quasi a mimare una dissezione), scolpendo lo spazio vuoto della scena con l’effetto delle ombre o delle trasparenze, in un’opacità esterrefatta.
Durante i cambi di scena, oltre alla solitudine delle pareti del teatro non quintate, incute timore vedere i personaggi seduti sul fondo, in penombra: come fossero gli attori di uno di quegli incubi che tornano più notti, identici a sé stessi, quando si sa già il loro svolgimento ma non si può far nulla per evitare che accada.

Il tappeto sonoro, oscillante fra l’elettronica e il post-rock, accompagna con il suo beat il ritmo dei gesti o degli spostamenti scenografici: la precisione e l’andamento della partitura, grazie al lavoro del regista, rendono lo sviluppo formale davvero fluido.

È godibile, questo “Hamlet”, perché dal punto di vista tecnico riesce a restituire (come si prometteva nelle note di regia) la profondità dell’opera; resta, però, un lavoro smussato per quanto riguarda la profondità di lettura e la sfida intellettuale all’attualità.
Baracco, Macrì e Santasangre insistono sulla separazione fra segno e referente (Amleto e Laerte si sfidano battendo la mazza contro delle piastre metalliche, a distanza l’uno dall’altro; in modo simile Amleto uccide Polonio), ogni qual volta le esigenze sceniche inducono all’antirealismo e alla relazione simbolica, trovano soluzioni iconiche adeguate e sensorialmente incisive; eppure, nel tentativo di fare di Amleto un simbolo della perdurante scissione del post-post-moderno, con gli annessi narcisismi (si pensi al primo piano di Amleto, quasi un selfie, proiettato nel finale sugli schermi), non riescono a trasmettere abbastanza quello che Shakespeare non perse mai per strada. La vitalità, anche quando è tragica.

Un’ultima curiosità: ironica, presumiamo involontariamente, è la scelta di affidare a Gabriele Lavia il ruolo del fantasma del padre, in registrazione. L’ex direttore del Teatro di Roma, insomma, sembra epifanizzarsi (non per l’ultima volta, scommettiamo) in quello che era il suo teatro, per fare un salutino, oltre che ad Amleto, anche al Claudio – Antonio Calbi – che l’ha sostituito.

HAMLET
un progetto di: Andrea Baracco, Biancofango, Luca Brinchi e Roberta Zanardo (Santasangre)
drammaturgia: Francesca Macrì
regia: Andrea Baracco
personaggi e interpreti:
Amleto – Lino Musella | Gertrude – Eva Cambiale
Claudio – Paolo Mazzarelli | Orazio, Guilderstern – Michele Sinisi
Polonio, Osric, Attore – Andrea Trapani
Laerte, Rosencrantz, Attore – Woody Neri
Ofelia – Livia Castiglioni | Spettro – Gabriele Lavia (in audio e video)

impianto scenico, disegno luci, costumi: Luca Brinchi e Roberta Zanardo
progetto video: Luca Brinchi, Roberta Zanardo e Daniele Spanò
collaborazione al disegno luci: Javier delle Monache
collaborazione ai costumi: Marta Genovese
direzione tecnica: Javier delle Monache
direzione di produzione: Alessia Esposito
Produzione: Teatro di Roma, Festival Romaeuropa, 369gradi
in co-produzione con: Festival Internacional de Teatro Clásico de Almagro
in collaborazione con Tfddal – Teatro Franco Parenti, La Corte Ospitale, ATCL (Associazione Teatrale tra i Comuni del Lazio), Kollatino Underground, con il sostegno di Carrozzerie|n.o.t, Claudio Angelini (Città di Ebla), Link Academy

durata: 2h 30′
applausi del pubblico: 3′ 20”

Visto a Roma, Teatro Argentina, il 26 settembre 2014
Prima nazionale

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