Liebestod. La furia di Angélica Liddell alla ricerca della tragedia nell’arte

Liebestod (photo: Christophe Raynaud de Lage)
Liebestod (photo: Christophe Raynaud de Lage)

Al Teatro Arena del Sole di Bologna le uniche date italiane dell’artista spagnola con lo spettacolo presentato al Festival d’Avignon 2021

Un suono pulsante dà avvio allo spettacolo, mentre il sipario di un rosso accesso è ancora chiuso.
Il telone si alza e un uomo a petto nudo è attorniato da gatti al guinzaglio. Solo pochi istanti e il sipario si richiude. Un inizio intrigante: il telone si apre e si chiude ripetutamente, mostrando ogni volta un’immagine diversa, sospesa, enigmatica, in attesa.

Inizia così questa rivisitazione dell’aria finale del “Tristano e Isotta” secondo Wagner, a cura di Angélica Liddell, drammaturga, regista ed attrice catalana, una delle artiste più rinomate e pluripremiate del panorama europeo, dall’immaginario iperbolico, non a caso soprannominata la “furia spagnola”.

Lo spettacolo, acclamato al Festival d’Avignon nel 2021 ma anche molto criticato per le scelte di cui vi diremo, è arrivato in esclusiva, unica data italiana, all’Arena del Sole di Bologna.

Nato in seno a “Historias del Teatro III” (un progetto di Milo Rau, prodotto dal Teatro Nacional De Gante), il lavoro esplora le origini del “fare teatro” per la Liddell e parallelamente la tauromachia, indagando il senso più ascetico della corrida. Lo fa ispirandosi alla figura del rivoluzionario torero andaluso Juan Belmonte (che rivoluzionò la corrida, trasformandola in una danza verso la morte) ed affidandosi proprio alla “Liebestod“, ossia la morte d’amore, con riferimento al momento-apice del dramma musicale di Wagner del 1865.
In numerose interviste Angélica Liddell ha infatti dichiarato d’identificarsi con Belmonte, di sentire una forte connessione tra il proprio modo di fare teatro e la sua maniera di combattere.

Come in altri suoi lavori precedenti, l’artista spagnola è al centro della performance (che tuttavia si compone anche della presenza di Gumersindo Puche, Palestina de los Reyes, Patrice Le Rouzic, Borja Lόpez e Ezekiel Chibo). In preda a una sorta di tarantismo e movimento perpetuo, agitata dalla necessità di sconfiggere e trascendere l’atroce abisso dei propri conflitti interiori, compie una lunga serie d’azioni rituali al limite dell’eresia e si consacra così alla crudeltà del teatro.
Con “El olor a sangre no se me quita de los ojos” (sottotitolo dello spettacolo che rimanda a Francis Bacon) la Liddell s’immola all’arte, combattendo come un matador al centro dell’arena/palco.

La scenografia è essenziale, le luci prediligono i toni caldi, donando enfasi e maestosità agli elementi che via via abiteranno la scena. L’artista è vestita con un lungo abito nero. Esibisce la propria disperazione, si dà colpi al petto e si butta a terra, grida il proprio dolore. Si taglia le gambe e le mani con una lametta. Beve vino rosso e mangia pane inzuppato nel suo stesso sangue. Si masturba.
In mezzo agli spalti la donna consacra ed irrora d’incenso un bellissimo toro nero imbalsamato, col manto lucido e lunghe corna. La sua è una corrida carica di erotismo, in cui i gesti e le azioni rituali (la vestizione del torero, il lancio dei fiori, i battiti dei tamburi, i colpi delle gambe, i gesti delle mani, l’uso del fazzoletto, l’uccisione del toro, la pulizia delle ferite) si mescolano al sacramento del battesimo, all’adorazione del corpo e del sangue di Cristo.

La melodia di un organo l’accompagna, mentre declama un lungo ed efferato discorso sul significato del rito cruento della tauromachia. Citando Juan Belmonte (che, a causa di una disabilità alle gambe, si avvicinava molto di più al toro in movimento, rimanendo pericolosamente immobile ad aspettarlo) “toreare è un esercizio spirituale”, un atto sacrificale volto alla redenzione dell’anima.
La donna prova per il toro un misto di sentimenti: attrazione, devozione, amore, rispetto, paura, timore. Un terribile dissidio interiore, un disequilibrio causato dall’aver vissuto un eccesso d’intensità, le impedisce di padroneggiare la sua vita. E quando il desiderio diventa troppo intenso, supplica il toro d’ucciderla, di morderle la testa e di stuprarla.

A metà spettacolo il monologo compie una deviazione. La donna impugna il microfono, si rivolge direttamente al pubblico ed inizia a parlare di sé: Angélica. Racconta con forza e veemenza la propria necessità di fare teatro, il senso di solitudine che prova, la brama di successo che anela, il desiderio di sentirsi amata. Si mette a nudo, si prende in giro, beffeggia il mondo del teatro, in particolare quello parigino; offende ed insulta i lavoratori dello spettacolo (“un mucchio di imbecilli, pieni di diritti”) ma che non sanno più cosa voglia dire davvero consacrarsi al proprio lavoro.
L’artista infatti sostiene, nel presentare lo spettacolo, che «La mancanza di spiritualità del nostro tempo impoverisce tutte le arti. Nell’arte, la tragedia è stata rimpiazzata dal senso del dovere, dalle responsabilità democratiche, dall’impegno sociale. Abbiamo confuso la legge dello Stato e la legge della bellezza, il che comporta la rovina dell’arte».
Canta, urla, sussurra, passa in rassegna tutte le voci che sa emettere. Tiene un acceso comizio provocatore, senza mezzi termini; contesta il ruolo che la cultura interpreta nella società odierna: compensare l’assenza di Dio, colmare il vuoto dato dalla mancanza di valori, d’amore, fede e spiritualità.

Una volta terminato questa sorta di sproloquio bulimico e autodistruttivo che mira a tutto e tutti, Angélica fa ritorno alla dimensione dell’arena. Si veste da torero e si prepara a compiere l’ultimo atto sacrificale, a vivere il culmine dell’amore, la bellezza tragica della morte.

La Liddell domina il palco da sola, tra fiumi di parole, urla, canto, sangue e gesti caotici.
Completano la composizione scenica dei vari quadri la presenza della musica (un mix di Wagner e folk spagnolo) e le numerose comparse (tra cui gatti, neonati e un uomo senza un braccio e una gamba) che, per quanto secondarie (non prendono mai la parola), svolgono comunque un’importante funzione simbolica-visuale con rimandi all’iconografia cristiana, come nei precedenti spettacoli (“Prima lettera di San Paolo ai Corinzi“, “Tandy“…).

Un certo godimento dello spettacolo deriva proprio dalla bellezza, dall’estetica della composizione scenica: immagini fisiche, violente, sublimi, penetranti, come quella del toro sdraiato a terra o quella della gigantesca carcassa scuoiata appesa in aria, un rimando a un dipinto di Bacon…

Due ore di monologo caotico e vorace nella sua lucidità, non sempre facile da comprendere; un collage di testi personali ed altrui, citazioni, referenze letterarie (primo fra tutti il filosofo romeno Emil Cioran, ma anche Rimbaud, Baudelaire, Genet, Sade e Bunuel…).
La difficoltà di lettura della drammaturgia risiede nella scelta dell’autrice di non creare un vero e proprio arco narrativo; anche i personaggi non vengono delineati in maniera netta. Tristano, Isotta, Belmonte, il toro: a tratti sembra quasi che la Liddell li incarni tutti simultaneamente. L’artista catalana non recita, ma si esibisce ed esibisce la propria arte, si fonde con essa, compie un atto sacrificale, va in trance. Le sue azioni, investite da un tono liturgico che qualcuno potrebbe giudicare blasfemo, sono per lei un rituale purificatore.

Nonostante l’incontestabile intensità della performance, il coinvolgimento emotivo dello spettatore sembra rimanere bloccato, il più delle volte, in una sorta di apatica contemplazione estetica.
I temi della tauromachia, della Liebestod, della passione erotica e della redenzione dell’anima non si trasformano in una vera esperienza catartica, fuori dal tempo e in dialogo con il sacro – come preannunciato – o quanto meno per il pubblico italiano, cui manca anche l’appiglio empatico dato dalla connessione identitaria con la tradizione della corrida.
Senza conoscere la biografia di Juan Belmonte non è facile cogliere i riferimenti alla sua figura: la sua ossessione per il torero Joselito (morto durante un combattimento), la frustrazione che provava per non essere morto a sua volta nell’arena, i sentimenti che lo spinsero a suicidarsi all’età di 72 anni con un colpo di pistola alla tempia…

Ancora una volta Angélica Liddell divide. E una buona parte del pubblico, appena iniziati gli applausi finali, abbandona la sala.

Liebestod
El olor a sangre no se me quita de los ojos
Juan Belmonte
Historia(s) del Teatro III
Con: Angélica Liddel, Gumersindo Puche, Palestina de los Reyes, Patrice Le Rouzic, Borja Lόpez, Ezekiel Chibo
Testo e regia, scene, costumi: Angélica Liddell
Disegno luci: Mark Van Denesse
Suono: Antonio Navarro

durata: 2h

Visto a Bologna, Teatro Arena del Sole, il 29 aprile 2022
Prima nazionale

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