Cupo e preistorico il Limite di Vincenzo Schino

Limite (photo: linkfestival.it)
Limite (photo: linkfestival.it)

Recentemente qualcuno ha definito Teatri di Vetro 4 come “il primo e fuori stagione dei festival estivi”, riflettendo sulla perdita di un’identità, la stessa che, in forma di sospetto, aveva denunciato anche Klp nel pezzo di apertura, trasformando quella che doveva essere una vetrina per i “senzatetto” del teatro in un gioco della bottiglia tra molti volti ben noti.

Si potrebbe inquadrare “Limite” di Vincenzo Schino nell’economia (termine dunque inteso in tutti i possibili sensi) di questo festival, di cui è stato il penultimo spettacolo. Ma è forse più interessante guardarlo con sguardo vergine, ché se non altro si è trattato di uno spettacolo vero, vivo. Ancora imperfetto e dichiaratamente tale. Il che spesso è una consolazione che fa tirare un sospiro di sollievo riguardo all’atteggiamento di molti teatranti indipendenti.

“Limite” è un lungo quadro doppio che parla di sotterranei e sussurri. Ad accogliere l’ingresso degli spettatori, tre personaggi senza nome e senza volto. Coperti dalle maschere, i rigorosi ed efficaci Marta Bichisao, Riccardo Capozza e Gaetano Liberti diventano bambole di porcellana. Vivono una quotidianità sbilenca ma rigorosa nel loro emanare polvere, nel loro esprimere l’immobilità di una clausura. Uno dorme, gli altri due armeggiano con masse di materiale di tappezzeria. Si farciscono il petto con manciate di imbottitura che sembrano capelli di creature morte; intrecciano, pare, i resti di un animale stato, di uno stadio precedente della loro evoluzione che continua, inesorabile, ad accadere.
Dietro, un fondale sapientemente dipinto da Pierluca Cetera ci riporta all’arte dei fiamminghi, di Goya, di William Blake, raffigurando di qua uomini smagriti ed emaciati che reggono a pancia all’aria un cane e di là una figura umana gigantesca, tutto “sonno della ragione che genera mostri”.

Schino è votato al teatro visuale, il suo occhio è visionario (non a caso nei crediti compare “cura della visione”) e cupo, usa con grande ingegno le luci ma con ancor più passione le ombre. Il suo sguardo è interno, radicale, la sua estetica quella delle pitture murali preistoriche. Vuole portarci in una caverna sepolta dal tempo. E lì abbandonarci. Assolutamente affascinante è il linguaggio con cui Schino traduce in immagini i propri ragionamenti. Sono visioni da tormentato dormiveglia, intuizioni frammentate con tagli sottili. Il suo lavoro è sul corpo e sulla durata. Le bambole hanno un loro tempo, hanno proprie parole, sussurrano invece di parlare. Coperte dalle maschere, le voci non arrivano quasi, al loro posto cogliamo sillabe soffiate. E ci bastano. Poi i loro corpi, complici un nuovo gioco di ombre e il riflesso del loro sudore sulla schiena, si tramutano in strane creature quadrupedi, scomposte. Una sorta di esperimento malato ha fuso cani (di cui udiamo l’inquietante latrato) e maiali (ché loro lottano grugnendo rabbiosi in un fango immaginario). A dominarli sarà una figura finalmente umana e senza maschera, sul capo ha una corona, cammina su due piedi. Ma con il passo affaticato e zoppo che porta i segni di una lotta interna.

A fine serata, è bello avere finalmente in cambio una delle soddisfazioni migliori dell’essere “spettatore professionista” (ché critico ci sembrava troppo): scambiare quattro chiacchiere con la compagnia. Mi trovo a dire che il lavoro ha una forza notevole, che colma con idee originali le larghe anse create dalle aspettative di una drammaturgia viscerale eppure così complessa. Quello che manca a questa “anticamera” (presentata da quasi un anno, ci spiega Schino, come un “primo passo”) è una certa fluidità nel passaggio da un quadro all’altro.
S’intuisce alla perfezione la natura di “studio”, questa forma ibrida che ultimamente viaggia sul filo dell’abuso, laboratorio aperto che, come frutto della presentazione in pubblico, vorrebbe e dovrebbe ottenere la linfa adatta a proseguire il lavoro, ma che spesso si risolve in un’involuzione degli intenti, in un arrugginirsi di certe scelte, in una botta di vigliaccheria e pigrizia.
Ecco perché il consiglio dato a Vincenzo Schino e al suo ensemble Opera è quello di studiare e compiere il passo in più che manca per risolvere questo studio in uno spettacolo vero e proprio. Ché forse non c’è bisogno di altro materiale, forse questi quadri custodiscono in sé una propria spiegazione, una propria dignità, di certo una propria forza. Come spesso accade, il passo da fare è o uno di più o uno di meno: in questo caso il bivio è tra un rapporto più organico fra prima e seconda parte o una rigorosa separazione delle due, a offrire quasi relativi punti di vista, uno interno, l’altro esterno. Come ne “La lezione di anatomia del dottor Tulp” di Rembrandt.


LIMITE – ANTICAMERA

cura della visione e regia: Vincenzo Schino
interpreti: Marta Bichisao, Riccardo Capozza, Gaetano Liberti
produzione: Teatro Valdoca, con il sostegno di Ass. Armunia
durata: 40’
applausi el pubblico: 1’ 15’’

Visto a Roma, Teatro Palladium, il 23 maggio 2010
Teatri di Vetro 4

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