“D’api feconde, e numerosi sciami / A lui ronzavan gli alvëari, e in copia / Spremea da i favi lo spumante mele: / E a lui di tiglie, e resinosi pini, / E pingui piante frondeggiava il campo, / E quanti fior su gli alberi fecondi / Spuntavano in april, tanti da i rami / Pendevano in autun maturi frutti”.
(Virgilio, Georgiche IV, 211-218, trad. it. C. Bondi).
Sideralmente lontano dal desolante scenario dell'”Impollinatore” è il vetusto passo scelto a mo’ di esergo, un brano che – evocando immagini di edenica floridezza – anticipa la celebre bugonia di Aristeo, trasposizione letteraria di quel mito della generazione spontanea molto distante dai nostri odierni orizzonti biografici.
In tali orizzonti Giovanni Guidelli e Francesco Grifoni hanno saputo inserirsi in maniera assai puntuale, portando in scena uno spettacolo-thriller di stringente attualità, ripreso, dopo la genovese dello scorso autunno al Teatro della Tosse, in occasione della nona edizione dell’Earthink Festival, prima rassegna italiana aperta alle espressioni artistiche e performative sensibili al tema dell’ecosostenibilità.
Neppure quest’anno – nonostante le difficoltà – il festival ha voluto fermare il proprio corso, grazie agli sforzi dell’ideatrice Serena Bavo di Associazione Tékhné, proponendo un fitto calendario di incontri ed eventi.
“L’impollinatore” è una pièce agita, ritmica, cadenzata, armonica, o meglio volutamente disarmonica, considerato il dualismo offerto allo sguardo dello spettatore; nonostante la fissità situazionale e scenografica (la scena è infatti composta da una panchina, un’insegna al neon e qualche cassa d’acqua), figlia di un contemporaneo senza tempo, l’opera sviluppa piacevolmente e con fluidità tutte le regole del giallo, complice anche l’antica formazione cinematografica di Guidelli.
Spoiler alert: ogni elemento, finanche il più minimo, trova un senso nella scrittura drammatica e, qualora venga mostrato, deve poi essere necessariamente sfruttato entro la calata del sipario. Un sipario che, a ben guardare, non esiste affatto: l’allestimento infatti è “a scena aperta”. Il pubblico prende posto già preconizzando una condizione di godotiana attesa, come sembra di poter dedurre dal cartello sbilenco che annuncia la natura closed non solo del distributore (o negozietto) di bevande fresche, ma anche delle speranze su un futuro migliore.
Come recitano le note di regia, un uomo in abito da ufficio e valigetta arriva in prossimità di una panchina di un parco. L’uomo, accaldato, si siede, indeciso sul da farsi. Nello stesso momento sopraggiunge un altro figuro in abiti da lavoro (la contrapposizione è chiaramente anche estetica): deve consegnare delle confezioni di acqua. Approfittando della chiusura del chiosco a cui la consegna è destinata, il fattorino si intrattiene per qualche istante, offrendo al distinto e rampante compagno di scena una bottiglietta d’acqua. Quest’ultimo dapprima rifiuta, ma poi, visto il caldo torrido, accetta: d’altronde era venuto al parco proprio per comprare qualcosa da bere. Il fattorino comincia così a parlare del tempo, del caldo, delle stagioni che cambiano. E degli insetti. “Il signore distinto lo asseconda: forse il fattorino è solo un personaggio eccentrico, e ha bisogno di essere ascoltato. Ma ben presto la conversazione diventa un interrogatorio”.
Attraverso questo agone verbale i due attori, con grande presa drammatica e profonda sensibilità, riescono a restituire – senza alcun semplicismo – uno sguardo crudele sulla realtà, sulla nostra Terra ormai non soltanto più minacciata, ma definitivamente al collasso. Le api, esseri fondamentali per tutelare la biodiversità, diventano metafora di uno sfacelo più generalizzato, che riguarda innanzitutto il mondo che ci ospita, divenuto girone inospitale, e in seconda battuta la nostra morale. Ben lungi dal voler affrescare una situazione proppiana, Guidelli – qui anche nelle vesti di drammaturgo e regista – sceglie di complicare i piani etici, rendendo ciò che appare giusto esteriormente greve e moralmente esecrabile. Personaggi à la Tersite, insomma, per tornare alle suggestioni classicheggiante da cui si è partiti.
Per provare a esplorare più in profondità l’opera abbiamo scelto di parlarne direttamente con Giovanni Guidelli. Prima, però, una doverosa premessa: l’acustica dello spazio destinato alla rappresentazione (l’Imbarchino del Parco del Valentino) non è ottimale, il che ci induce almeno per un istante a riflettere – al di là delle ovvie contingenze e necessità pratiche – sulla validità degli sconfinamenti extrateatrali, oggi pressoché imposti dall’emergenza sanitaria. Dovremmo forse confrontarci più onestamente – istituzioni, studiosi, operatori e artisti – sul senso del site specific, affinché non generi deleterie forme di epigonismo, come quel “trenino autogggeno” parodiato da Leo de Berardinis nel suo celebre “Totò, principe di Danimarca” per denunciare le deviazioni prodotte da scorrette letture di Grotowski.
“Mi farebbe piacere – dichiara lo stesso Guidelli – tornare a considerare uno spazio non convenzionale proprio il teatro”.
Ma torniamo a noi…
Giovanni, in che modo è nata questa scrittura? Una contaminazione fra interessi ecologisti e scaltrezza cinematografica…
Ciò che mi ha spinto a scrivere “L’impollinatore” è stata la mia antica frequentazione dell’universo green. Da circa 30 anni opero infatti come volontario nella antincendi boschivi. Mi sono sempre occupato di ambiente, in un certo senso. D’altronde, preoccuparsi del futuro è un’esigenza umana, non solo drammaturgica. L’anno scorso mi sono poi imbattuto in un report inquietante sull’ecatombe degli insetti (ripubblicato, fra gli altri, sulle colonne dell’«Internazionale»). Dati alla mano – inconfutabili, giacché forniti da associazioni e fondazioni assai note – mi sono detto: “Siamo dinanzi a un fenomeno che muta rapidamente, che sta sotto i nostri occhi. Ma fa impressione, perché nessuno se ne occupa”. Questa è stata l’ispirazione tematica: i danni ambientali, i cambiamenti climatici. Il secondo abbrivo l’ha conferito la consapevolezza del fatto che problemi del genere, non solo in Italia, ma anche in Europa, li trattano in pochi. Qualcosa nei laboratori, nel teatro ragazzi o in quello di figura. Poco altro. Insomma, sentivo l’urgenza di comporre questo testo, ma avevo il problema di come ambientarlo. E ho scelto di farlo costruendo un dualismo, che ci è sempre consustanziale. Avevo la necessità che i due protagonisti fossero le due facce di una stessa medaglia: perché noi, noi uomini, siamo da sempre combattuti. Da un lato il “bisognerebbe fare così”, dall’altro “va beh, ma le logiche che governano il mondo ci trascendono, tocca ad altri scegliere” (all’Unione Europea, per esempio). Così ho trasposto questo nucleo di base nel dialogo fra i due, in questo poker face, in questo gioco di scorpione contro scorpione o – per mutuare un’altra metafora dal mondo animale – di cobra contro mangusta. Per vedere fin dove si arriva. Un ulteriore elemento è stata l’esigenza della parte thriller: perché uno accetterebbe una bottiglia d’acqua, mi sono chiesto? Soltanto se quest’ultima ha una funzione nel gioco scenico disvelato in chiusura. Questo dato mi consentiva, contestualmente, di arricchire e complicare, o meglio di operare un cambiamento nel mio personaggio, quello di Jack. All’inizio ci appare come uno sciocco, rassicurante, uno di cui ti puoi fidare. Nell’epilogo invece ci si rende conto che tutto è stato previsto, organizzato. Salvo, invero, il finale-finale. Qualche spettatore mi ha chiesto: “Ma l’acqua è contaminata oppure no?”. Ecco, Jack in realtà spiega bene che cosa sia venuto a portare: la paura, un sentimento atavico, strutturale, profondamente legato all’istinto di conservazione dell’uomo. Ti fermi un attimo, calcoli ogni mossa. Ma se non hai paura della realtà, procedi, vai avanti. Tutto appare normale. Ho capito che proprio l’essere un “foboforo” poteva essere l’elemento essenziale per invischiare Jack in una consapevolezza da lui stesso, fino in fondo, negata, mai ammessa. Ti ho messo paura? Bene, basta questo. È sufficiente aver provocato un disturbo nell’uomo distinto in abiti da lavoro. Nell’acqua, beh alla fine non c’è nulla.
Prima hai parlato di “due facce di una stessa medaglia”. Ma il manicheismo è interno agli stessi protagonisti: prendiamo il tuo personaggio, per esempio, che complica la situazione, i piani etici. Ci offri una chiave di lettura?
Io ho sempre pensato, nell’approcciarmi a un personaggio, che esso risulti affascinante innanzitutto per i suoi lati oscuri. Faccio comportare Jack in un certo modo per non doverlo/poterlo salvare in toto: non si fa scrupoli a sfruttare la paura. Machiavellicamente adotta tutti i metodi che servono alla sua causa. Non è pulito nemmeno lui, non è un luminoso eroe. Ha le sue colpe, le sue ombre. È spregiudicato, o forse anche più. Non ci sono gli estremi per accusarlo di rapimento, ma poco ci manca. La giustificazione è il suo scopo, dischiudere al riottoso astante il proprio universo mentale; i mezzi adottati, tuttavia, sono efferati. Infonde panico, è sregolato. La sua è un’operazione scientificamente, clinicamente curata in ogni singolo dettaglio. Di fatto, adotta lo stesso metodo (sporco) applicato dalla Transgenic in Africa. Mi piaceva questo elemento: non volevo passare per un salvatore.
Mettendo in scena “La congiura dei pazzi”, due anni fa, avevo scelto di rappresentare lo scontro fra Medici e Pazzi come quello fra due gang rivali. Lorenzo de’ Medici, per esempio, era ben lontano dal prototipo vulgato del Magnifico e mecenate. L’ho ritratto, piuttosto, come un uomo con i propri interessi, ma senza scrupoli. Molto “sporco” anche lui… È solo sporcandosi – credo – che si può giungere a una soluzione o comunque ad affrontare realmente un problema. E allora, a teatro, facciamo qualcosa di sporco, per capire che bisogna farci attenzione: era questa, in definitiva, l’urgenza creativa da cui sono partito.
Uno degli aspetti più evidenti della tua ricerca d’attore riguarda la voce. Come la sfrutti?
A 17 anni sono stato ammesso alla Bottega Teatrale di Gassman padre. Già in precedenza avevo lavorato al cinema, ancora ragazzino, con i fratelli Taviani. Ma soprattutto, mi sono formato alla sede RAI di Firenze, nello Studio C, alla scuola di Umberto Benedetto, facendo radiodrammi e sceneggiati radiofonici. Entrai a soli 10 anni. La voce è importante per me. Nel tipo di messinscena che costruisco, scelgo una recitazione che risente di un’impronta cinematografica. Un’ostentazione baritonale, che parta dal plesso solare, va bene quando non è a discapito della drammaturgia. Siccome ho lavorato molto sul grande schermo, cerco di lavorare per estrazione, nei movimenti, nelle espressioni e quindi anche nella voce, quando non è necessario esacerbarla. Una pièce si dovrebbe poter ascoltare; si dovrebbe poter comprendere la sottile identità dei personaggi pur non vedendoli. È questo un aspetto sul quale ho lavorato anche con il mio collega, Francesco Grifoni, che ha invece una formazione più romantica. Un tragitto, quello dal romanticismo alla glacialità, che alla fine ha pagato.
L’IMPOLLINATORE
di e con Giovanni Guidelli
e con Francesco Grifoni
produzione AVATAR
Visto a Torino, Imbarchino del Parco del Valentino, il 19 settembre 2020