La rivalità ad altissimi livelli di genio e di talento è terribilmente seducente. Se anche arricchita dall’invidia, corrosiva e vibrante, si accende l’interesse del pubblico come una miccia. È così che si è alimentata la leggenda, priva di fondamento, dell’omicidio di Mozart da parte di Salieri, ricordato come sofferente rivale dalle doti musicali più scarse.
Il poeta e scrittore russo Aleksandr Sergeevič Puškin scrisse nel 1830 l’atto unico “Mozart e Salieri”, in cui Salieri in incognito commissiona a Mozart un Requiem, allo scopo di suonarlo al suo funerale dopo averlo ucciso.
Per rendere giustizia storica, bisogna dire che Salieri ebbe una fulgida carriera ed ebbe grandi riconoscimenti da Vienna e dalla società musicale dell’epoca. Fu in realtà un conte a commissionare a Mozart il Requiem, per spacciarlo per proprio all’anniversario della morte della moglie. Ma nella mente di Puškin i presupposti crearono il conflitto romantico per eccellenza, quello tra genio e mediocrità, e Salieri sarà condannato a essere ricordato come razionale, arido e tormentato dal desiderio della gloria.
Mozart, per la sua vita disordinata e incauta, viene descritto come genio inconsapevole, ispirato, a sua volta tormentato ma dall’arte stessa.
All’opera di Puškin e al successivo testo teatrale “Amadeus” di Shaffer è dichiaratamente ispirato lo spettacolo “Livore”, che riprende anche nel titolo un sinonimo di “Invidia”, titolo originale dell’opera di Puškin. Ma il testo di Francesco D’Amore, che lo mette in scena insieme alla compagnia VicoQuartoMazzini (vincitrice del premio Hystrio 2021 come migliore compagnia emergente italiana), rovescia il testo originale, lo scarnifica, lo ribalta, per trasformarlo completamente in una storia contemporanea.
“Livore”, presentato alla 26^ edizione del Festival delle Colline Torinesi in corso fino al 14 novembre, abbandona la via della complessità per puntare su semplicità, linearità, essenzialità. I caratteri sono moderni, alle prese con le piccolezze borghesi del successo individuale e dei problemi domestici, sono calati nelle dinamiche di una coppia omosessuale alla moda (che teme un possibile rivale) e nelle dinamiche contemporanee dell’arte dell’attore, in bilico tra piccoli circoli teatrali sconosciuti e fiction interattive per il grande pubblico, che può decidere con un hashtag il tradimento del protagonista.
I tre personaggi, Antonio (Salieri), Rosario (manager e partner di Antonio) e Amedeo (Mozart), sono portatori di una prospettiva chiara e netta, come fossero pedine degli scacchi, ognuna obbligata a muoversi nell’unico modo che gli è concesso.
La scena, che rappresenta l’appartamento della coppia, è un quadrato bianco quasi completamente vuoto, ed è in questo vuoto difficile che i personaggi stanno, in piedi, a fronteggiarsi, senza appigli o azioni reali da poter compiere, o si muovono, si inseguono e si respingono, ma sempre senza un luogo altro in cui andare: la loro scacchiera è quella. Un bell’effetto visivo è la cascata d’acqua, che rompe l’economia dell’essenzialità senza scenografie per simulare la pioggia e la doccia.
Gli unici oggetti di scena sono un coltello e delle barbabietole rosse, poggiati su uno sgabello bianco. Hanno una duplice funzione: da un lato sono l’unica azione fisica con cui poter dare sfogo alla corporeità dei personaggi, dall’altro sono una nota di allusione simbolica all’aggressività e al sangue.
Il tempo è quello della preparazione di una cena, che serve a stingere relazioni utili e interessate.
Antonio (Francesco D’Amore) è debole, insicuro e sofferente al collo, aspetti che verranno ribaditi nel corpo e nella voce e mantenuti per tutto lo spettacolo. Lui è l’attore mediocre che, con l’aiuto del compagno, ha trovato posto ai provini e ruoli di successo.
Rosario (Gabriele Paolocà) è il manager alle prese con l’arrampicata sociale, che in Italia è sempre uguale a sé stessa, dagli anni ‘80 (nel testo c’è ancora la cena con l’onorevole) fino ai giorni nostri (in cui non può mancare – anche lui citato nel testo – l’umami come cibo cool dell’happening mondano). Paolocà, che è regista dello spettacolo insieme a Michele Altamura, tiene spesso il personaggio a braccia conserte: durante il testo viene dichiarato che è la posa di quando è nervoso, e forse questo ci vuole dire ancora qualcosa quando nell’ultima scena, con una nuova serenità, lo ritroviamo di nuovo con le braccia incrociate. Amedeo (lo stesso Altamura) è l’artista tormentato, il genio folle e sregolato, che non prendeva appunti durante la scuola di teatro, che non ha bisogno di studiare o di provare perché entra direttamente nel personaggio. Ed è l’attore bravo ma sfigato, che recita solo nei piccoli circoletti e scantinati. Non sa neanche che per partecipare ai casting bisogna mandare delle foto, è fuori dal mondo del mercato.
Antonio deve interpretare Mozart nella prossima fiction, Amedeo ha un ruolo come Salieri: qui si svela l’incrocio con la storia originale, sostenuto da tre diversi momenti di ‘a solo’ che i singoli attori si giocano su una pedana sotto i riflettori, in rapporto diretto ed esplicativo con il Requiem di Mozart. Durante il testo inoltre Amedeo cita dichiaratamente alcuni versi sull’invidia di Puškin. Le storie dei due attori si mescolano con quelle dei due musicisti: in questa versione Antonio è privo di verve e Amedeo è provocatorio e aggressivo. Si parla anche di teatro, della difficoltà lavorativa di barcamenarsi tra progetti di qualità poco riconosciuti e grandi produzioni acclamate ma dal valore discutibile.
La narrazione si sviluppa per svelamento successivo di informazioni, così scopriamo sempre più dettagli dei personaggi e il climax si instaura per un accumularsi di elementi contingenti (i lampadari ordinati non arrivano, la collaboratrice domestica forse è scappata con l’auto) e del passato (ci sono episodi che lasciano intendere desideri ed emozioni mai rivelati) che rendono la situazione sempre più nervosa.
Il testo dichiara nelle battute i caratteri dei personaggi, le emozioni sono esplicite, tutto converge verso una tensione cerebrale fra i tre che non esplode ma si risolve in una sfumatura di passaggio verso un nuovo equilibrio, inaspettato, disorientante.
Non è in gioco la morte in questo spettacolo, per quanto sia minaccioso il coltello, lo stesso tentativo è dichiaratamente blando e ridicolo. C’è un cambiamento nel finale, che per certi aspetti ci è sembrato poco chiaro nella dinamica, ma forse non c’è una vera risoluzione per questi personaggi contemporanei, come non c’è una vera soluzione, nella realtà, al problema dell’arte oggi.
LIVORE
spettacolo di VicoQuartoMazzini
drammaturgia Francesco D’Amore, Luciana Maniaci
regia Michele Altamura, Gabriele Paolocà
produzione VicoQuartoMazzini, Gli Scarti, Festival delle Colline Torinesi
con il sostegno di Armunia e Centro di Residenza multidisciplinare della Campania
durata: 1h
applausi del pubblico: 1’ 30’’
Visto a Collegno, Lavanderie a Vapore, il 25 ottobre 2021
Festival delle Colline Torinesi