Una rilettura epica di un classico shakespeariano. Una rivisitazione con uno sguardo sulla cronaca nera, in cui il dramma della passione e della gelosia ha un nome preciso: si chiama “femminicidio”, reato tra i più infami.
L’“Otello” che Luigi Lo Cascio, autore, regista e attore, ha portato in scena al Piccolo Teatro Strehler di Milano, è una tragedia tra passato e futuro. Passato perché sembra rifarsi al modello medievale della “Chanson de Geste”. Futuro perché punta al tema mai sopito della violenza di genere.
Con “Otello” Lo Cascio torna al teatro, dove fu lanciato a inizio carriera da maestri come Patroni Griffi, De Capitani e Cecchi. E ritrova uno spazio alla poesia diverso dal cinema. Esce dalla gabbia di un linguaggio stereotipato. Riveste Shakespeare di sicilianità ed epicità.
Questo rifacimento è tutto in endecasillabi siculi. Parole come “addunàrsi”, “nésciri” o “nfuddìri”: un linguaggio criptico e maestoso, che riporta alla letteratura degli albori.
Non a caso abbiamo fatto riferimento alla “Chanson de Geste”. Questo ciclo, che risale all’XI secolo, segna il passaggio dal latino al volgare. Tratta le vicende di uomini eroici in termini magniloquenti. Indugia in descrizioni, verbosità, espressioni che attirano il pubblico. Limita il dialogo diretto per eccedere in ampi monologhi. Sconvolge il filo narrativo originale.
Rimescola gli eventi, invertendone la cronologia. Inserisce elementi fiabeschi, situazioni provenienti da altre opere. Tutti pregi – e difetti – di questo “Otello”.
Lo Cascio riduce l’originale. Ne limita spazi, scene e attori. Qui sono in quattro: Iago (lo stesso Lo Cascio), Otello (Vincenzo Pirrotta) e Desdemona (Valentina Cenni). Poi c’è il soldato (Giovanni Calcagno), narratore-coro che ci accompagna nella storia riassumendo e commentando.
“Otello” diventa racconto epico da cantastorie. Il flashback iniziale ci fa sbattere contro l’esito degli eventi. Il fazzoletto, motore della storia, è sciorinato come una vela o un sudario, avvolgente come la musica scenica di Andrea Rocca.
Il dramma è già all’epilogo. Sentiamo il corpo inerte di Desdemona ancora caldo: soffocato, come il pathos e il climax che erano elementi portanti del dramma shakespeariano: e qui dissolvono, per cedere alla forza degli eventi. Rinunciamo a quell’incalzare della gelosia che s’impossessava del Moro fino a ottenebrarne la ragione. Tutto è compiuto. Sembra l’attacco di un articolo giornalistico, le 5 W in evidenza.
Lo Cascio compensa il deficit di pathos con quel po’ di cinema: immagini (di Nicola Console e Alice Mangano) proiettate di tarli e vermi tipo graphic novel, grovigli stile Hitchcock: ma disegnati, epidermici, esteriori.
Più che un dramma della gelosia o dell’invidia, quest’Otello è una tragedia della misoginia. L’amore meraviglioso e ineffabile è scomparso. Siamo alla fase dall’odio cieco, del disprezzo ributtante. La furia omicida del Moro è pari all’avversione atavica di Iago per le donne: “Tutte buttane”, madri comprese. E qui Lo Cascio, un sogno da psichiatra e due anni di Medicina alle spalle, passa da Shakespeare a Freud. Ci spiega che Iago bambino è stato traumatizzato da una mamma fedifraga, e in parte lo assolve. Come in parte assolverà Otello, transfuga sulla luna a bordo dell’Ippogrifo. Alla ricerca del senno perduto. Alla ricerca di Desdemona. Perché, sulla luna, finiscono le anime delle donne uccise dai loro uomini.
In quest’“Otello” vigoroso che scardina la quarta parete e fa tutt’uno di platea e palco, il Moro e Iago sono facce di una stessa medaglia, volti della medesima stupidità: invidia e gelosia, odio e violenza. Otello e Iago coprotagonisti come nella celebre messa in scena in cui Gassman e Randone si scambiavano i ruoli a sere alterne.
Resta di buono la recitazione tagliente di Lo Cascio, quella grottesca e sovraccarica di Pirrotta, ibrido tra Shrek e Hulk, pazzoide, vigoroso, monumentale.
Le luci claustrofobiche di Pasquale Mari sublimano l’interiorità delicata di Valentina Cenni-Desdemona, l’unico personaggio che recita in italiano, incontaminato virgineo candore, Lucia manzoniana.
Efficace la recitazione di Calcagno. Meno il suo personaggio, dalle didascalie ridondanti e paternalistiche che sembrano fare il verso a padron ‘Ntoni sputasentenze dei “Malavoglia” di Verga.
Soliti personaggi legati ai fili. Tutto ci viene spiegato e ribadito come fossimo degli scolaretti. Sovraccarichi di melassa e marzapane. Un finale etereo, stellare, a spazzare la claustrofobia. Ad avviare la catarsi. Viaggio sulla luna: improbabile sogno immateriale, tra Ariosto, Fellini e Pasolini.
OTELLO
di: Luigi Lo Cascio
liberamente ispirato a “Otello” di William Shakespeare
regia: Luigi Lo Cascio
scenografie, costumi e animazioni: Nicola Console e Alice Mangano
musiche: Andrea Rocca
luci: Pasquale Mari
con: Vincenzo Pirrotta e Luigi Lo Cascio, Valentina Cenni, Giovanni Calcagno
produzione Teatro Stabile di Catania, E.R.T. Emilia Romagna Teatro Fondazione
durata: 1h 50’ senza intervallo
applausi del pubblico: 3’
Visto a Milano, Piccolo Teatro Strehler, il 27 gennaio 2015
Finalmente un commento comme il faut! Ero ieri sera a teatro, a Trieste. Ho poco da aggiungere a un commento perfetto, salvo un’osservazione: il siciliano anche se in endecasillabi, non è di facile comprensione e digeribilità. Alla fine mi è piaciuto più il commento di Sardelli che la resa teatrale… Non è Shakespeare di certo, ma un Freud molto alla Sordi (se qualcuno se lo ricorda in un film dimenticabile in cui faceva terapia di gruppo alla mutua e raccontava di quando era innamorato di mamma sua…). Misoginia e femminicidio sono indubbiamente le matrici di quest’opera locasciana, matrici pesanti quanto lo spettacolo.