Salvo Lombardo ed Alessandro Sciarroni a Roma: due posture in scena a Interazioni

Breathing Room (ph: Futura Tittaferrante)
Breathing Room (ph: Futura Tittaferrante)

Presentati, nella rassegna organizzata da Chiasma, “Breathing room” e “Save the last dance for me”

Andare a teatro (qualunque cosa significhi) è una postura. A partire dallo spazio occupato per fruire dell’evento, dal supporto fisico sul quale si sta, dal porgere la propria superficie, parte di essa, alla percezione, guardare uno spettacolo è una postura.
Ma anche andare in scena (qualunque cosa significhi) è innanzitutto assumere una postura: ci si posiziona e, come in una pratica di improvvisazione, poiché in ciò consiste per uno spettatore ignaro, si chiede a chi si trova in quella presenza di rispondere, non sempre o non solo fisicamente, su di sé, attorno a sé, di trovare un rapporto tra la propria forma e quella che appare.
Questo tentativo di mutua definizione non deve essere inteso in senso astratto o ideale. Per “adattarsi” si intende un’operazione percettiva, fisiologica attiva – anche laddove è una resa. Un richiamo problematico dell’abitudine di spettatore, un mercanteggiamento sul tema della flessibilità, una rinuncia o un rafforzamento di posizioni estetiche, di semplice gusto personale. Si intende un dialogo con il proprio personale contingente, nel mezzo del quale l’evento spettacolare si trova ad appuntarsi come una lama.

Una simile considerazione è per raccontare brevemente in cosa consta la distanza che separa due lavori andati in scena uno dopo l’altro a “Ctonia”, sezione decembrina di Interazioni, rassegna diretta dal gruppo romano Chiasma, nella sua ultima data, nello spazio di largo Venue.

Prima il debutto di “Breathing room” dello stesso Lombardo, poi il rodato “Save the last dance for me” di Alessandro Sciarroni. Identico quindi lo spazio teatrale, un quadrato col pubblico sui quattro lati (identica la possibilità, per uno spettatore, di inserire i corpi che guardano in uno spazio rappresentativo che include le loro reazioni); ma già diverse le luci, calde e direzionate da due vertici, a creare uno spazio confortevole le prime, piazzato bianco per coprire uniformemente tutto lo spazio le seconde; opposti i segnali alle posture del pubblico che i due lavori lanciano.

Il lavoro di Salvo Lombardo è principalmente racconto, le cui fila sono tirate per tutta la durata dalla voce dello stesso artista siciliano: la costruzione della sua “stanza del respiro”, iniziata durante momenti di residenza solitaria, è ora ripercorsa, nuovamente costruita sul palco, affidata, di replica in replica, a un diverso danzatore con cuffie, che performerà in quello spazio sul tema del respiro – e sarà una performance nuova, mai provata, mai in futuro rivedibile: vi hanno lavorato Irene Russolillo (il 18/12) e, sotto i nostri occhi, Philippe Barbut (il 20).

La voce di Lombardo, sempre pervasa di una vena di giovinezza che i toni gravi, posati su un canale intimo non riescono cancellare, rammenta in cosa sono consistiti i “doni” che ha chiesto durante le sue residenze ad alcuni tra studiosi, artisti, amici (tra cui chi scrive queste righe), e che ora saranno in parte restituiti al pubblico: si tratta di ricordi, pensieri, pratiche, percorsi letterari.
Così nell’edificazione di quella stanza dello stare si svela qualcosa di più dell’enfatizzazione di un moto ondoso ripiegato verso di sé: la forma del giungere rimane centrale, ma non si tratta di un gorgo che ingoia le correnti; esse sono in grado di toccarlo e allontanarsene, di attraversarlo. Tale ricerca è aperta all'”essere spostata”, come lo stesso Lombardo confessa.

E così si passa da interpretazioni sacre del respiro che si fa flatus vocis a suggerimenti d’esercizi, a memorie musicali e poetiche: va citato un Bertolucci (“Alle sorgenti del Cinghio”) soprattutto per la lettura cristallina che Lombardo ne dà, con un velo trasparente di accoramento nel respiro, una brina mattutina rotta dalla fatica della camminata o dall’ansia del ritorno; posizione sopraelevata della voce, adagiata sopra un andare di versi anche per lei irraggiungibile.
Tutti i suggerimenti sono accolti e restituiti alle orecchie del pubblico, lasciando che con grande libertà la bandiera che è metaforicamente posta al centro della “Breathing room” si lasci agitare in direzioni diverse, come il moto statico del respiro.

Caparra della presenza tangibile, in un ambiente altrimenti popolato di voci e fantasmi, permane il corpo di Philippe Barbut, a volte persino trascurato dall’affollarsi delle parole, dimentico esso stesso di qualcosa che può invece rischiare la decadenza a paratesto, le parole che, forse, turato dai suoi auricolari, non può udire. Paratesto quel corpo stesso, addirittura?

È in questo punto che rimane la questione più grande del lavoro, cioè nella figura del non-contatto fra la consapevole drammaturgia verbale, l’architettura concettuale del testo detto, e l’inafferrabilità del movimento compiuto da Barbut, che di quel progetto deve pur essere parte essenziale, ma che vi pare distaccato come da un’intercapedine.

Il rapporto che lega parole e corpo, non evidentemente generativo, è pertanto una chiave misteriosa di questo lavoro, una chiave che nella pratica non potrà mai essere posseduta una volta per tutte, poiché a ogni replica l’invitato a danzare, come detto, sarà un altro. Chissà se in quella volontaria privazione della continuità per il danzatore (impossibilità progettuale accostata a una così millimetrica tessitura drammaturgica?), così come in quella della comunità autore-spettatori-performer attraverso l’uso individualistico delle cuffie (nostra esclusione? esclusione del perfomer?) non possa essere una traccia attraverso la quale esplorare il buio di quell’intercapedine – una distanza a cui, una volta ancora, corpo e pensiero si sfiorano senza coincidere veramente. O si tratta solamente di un proliferare eccessivo di segni, di meccanismi?

Questi punti di domanda, a cui non è dato fornire una risposta univoca, fanno di “Breathing room” una costruzione che, come detto, non si limita a raccogliere una fortezza attorno a un concetto o a un moto, anche se nell’apparenza di una voce e una luce calde, può dare l’impressione di un lavoro centripeto. Essa in realtà è un edificio attraverso cui, per i molti spiragli lasciati aperti, e per quell’intercapedine che le gira attorno, passa, circola il vento, liberamente, un alito che lascia rughe sulla fronte degli spettatori. Altri tengono gli occhi chiusi.

Se la postura cerebrale del lavoro di Lombardo macina nelle parole e negli spazi oscuri, forse irraggiungibili, la propria edificazione scenica, “Save the last dance for me” di Alessandro Sciarroni ci ricorda quella capacità del Leone d’Oro 2019 alla Biennale Danza di Venezia di agganciare senza frivolezze o accidenti lo spettatore sotto una piena luce non raggiunta, ma data.
Si tratta di un lavoro per due danzatori, la cui descrizione, gravemente insufficiente a renderne gli effetti, non può che riverberarsi impotente sulla qualità di schietto metallo prezioso della dimensione materiale, fisica, danzata.

Save the last dance for me (ph: Futura Tittaferrante)
Save the last dance for me (ph: Futura Tittaferrante)

Gianmaria Borzillo e Giovanfrancesco Giannini entrano, si posizionano: hanno camicie leggere ma ben stirate, pantaloni eleganti con la riga, colori pastello anni ’60, scarpe da ballo, capelli in ordine, tutti e due azzimati ma leggeri, provinciali e provocanti.
Ballano roteando rigidi, svelti, scopriamo che è la “polka chinata” quella che stanno eseguendo: vorticosa, impegnativa, avvitata su sé stessa nel punto acmeico fino a schiacciare letteralmente i danzatori, “chinati” a terra.
La musica non è quella che ci si aspetterebbe, al contrario è una fredda elaborazione di Telemann rec., gruppo già collaboratore di Sciarroni nel suo “Turning“.

L’estrazione della polka dal suo habitat naturale di fisarmoniche, basso e clarinetti (vi sarà poi riportata nel finale, dopo gli applausi, quando il contatto con quei timbri sarà l’estrema fioritura), questo atto semplice e geniale porta fuori i corpi dalla dinamica spicciola del revival, fa immediatamente piazza pulita di una connotazione storica e sociale, eppure è capace di far emergere, di quella connotazione, gli elementi sentimentali, a cominciare dalla strenua tensione di negazione/desiderio sessuale.
I due uomini danzano per noi, ma è come se lo facessero per sé stessi, a bagno in quell’amalgama sonoro in scala di grigi, più vicino all’intimità del silenzio (il silenzio tra di loro, sempre più incontenibile) che a una qualsiasi musica in tre quarti.
In esso, quel vorticare che in “Turning” era sfida alla ripetizione, disumanizzazione, qui è un’operazione simile a quella di una mano addestrata, che faccia pulito su di una superficie: la serietà dai volti dei performer, così come da quelli del pubblico, giro dopo giro è ammorbidita, scrostata, fatta polvere. E più loro danzano, più sudano, più si lasciano, senza veramente farlo, cadere l’uno nelle braccia dell’altro; più la tensione di negazione si scioglie, e sorridono, ora di sfuggita, ora apertamente, di piacere al contatto lasciato e fortunosamente riagganciato, stringendosi per resistere alla forza centrifuga, più sorridono pure le facce, tutte, del pubblico attorno, che a questa scoperta felice fanno luminosa corolla. Hanno un ruolo, in quella storia: lo sguardo dell’altro è sia strutturale, perché guardiamo loro e guardiamo noi, e i nostri sguardi entrano di diritto nel turbinio di ciò che sta accadendo, sia tematico: possiamo godere dunque anche noi, di quel loro sentimento? Si sbottonano perché sentono anche loro che è così? Li stiamo liberando noi, sorridendo?

L’amore in faccia agli altri: è un tema che vibra e trionfa, pur non essendo mai detto, né banalmente suggerito, e che grazie all’esattezza tecnica nelle scelte sopra elencate, alla sensibilità, alla grazia, sta in nostra presenza orizzontale, spianato. E si configura in una postura del lavoro in scena come a palme aperte e bocca chiusa.

Se dunque “Breathing room” ci invita ad altre (im)possibili repliche per un ulteriore scavo verticale in quei rapporti non ancora chiariti, per gli aggiustamenti a cui quella costruzione di una stanza potrà sottoporsi, in un lento riequilibrarsi di pietre angolari e architravi, “Save the last dance for me” ci chiama a esser visto di nuovo perché tutto si ripeta, di colpo, identico, perché ci riporti nel godimento dell’iterazione resa magica dallo scambio.

Breathing room
ideazione, testi, voce e ambiente di Salvo Lombardo
realizzato con la Lavanderia a Vapore di Collegno
drammaturgia ispirata a Questo immenso non sapere di Chandra Livia Candiani
appunti, parole, immagini in forma di dono di
Fabio Acca, Michele Di Stefano, Carlo Lei, Cristina Kristal Rizzo, Paolo Ruffini, Alessandro Sciarroni, Alessandro Tollari
sound design Fabrizio Alviti
citazioni musicali da Ira di Iosonouncane
produzione Chiasma
con il sostegno di Lavanderia a Vapore e Interazioni Festival 2022
in collaborazione con Festival Attraversamenti Multipli
con il contributo di MIC – Ministero della cultura

durata: 50′

 

 

Save the last dance for me
invenzione Alessandro Sciarroni
con Gianmaria Borzillo e Giovanfrancesco Giannini
collaborazione artistica Giancarlo Stagni
musica Aurora Bauzà e Pere Jou (Telemann Rec.)
abiti Ettore Lombardi
direzione tecnica Valeria Foti
[produzione corpoceleste_C.C.00#, MARCHE TEATRO Teatro di Rilevante Interesse Culturale coproduzione Santarcangelo Festival, B.Motion, Festival Danza Urbana]

durata: 30′

 

 

Visti a Roma, Interazioni, il 20 dicembre 2022

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