C’è sempre qualcosa che manca nell’offerta culturale di un paese, di una realtà. Senza stare troppo a sottilizzare, in Italia abbiamo tutto, spesso abbiamo dato vita noi per primi a molte proposte, ma restano alcuni venti d’innovazione che non ci spingono ancora le vele. Uno di questi è di certo quello del visual theatre. Non a caso, una vera e propria traduzione italiana di questa definizione non esiste. Lo chiamiamo teatro visuale, ma non costituisce un genere vero e proprio, non qui.
Vantiamo qualche gioiello prezioso, da Muta Imago a Raffaello Sanzio, da Barberio Corsetti agli Artefatti e Immobile Paziente. Eppure, ad esempio, non siamo ancora in grado di pensare a canalizzare queste ricerche su un profilo organico che scavi a fondo nella reale potenza dell’immagine. La carenza è quanto mai organizzativa. Non che scarseggino le idee, ma di certo manca il coraggio di creare quella rete, da parte delle istituzioni, ma anche del pubblico stesso.
Claudia Sorace di Muta Imago, vincitrice nella sezione “Futuro della scena” del neonato premio Valeria Moriconi, sottolinea giustamente come “dal punto di vista sociale noi che facciamo teatro dobbiamo lottare contro il nostro essere nicchia. Dobbiamo allargarci il più possibile, senza snaturarci. Cercare il confronto con il pubblico”. Parole sante: troppo spesso, soprattutto se frequentiamo i circuiti underground animati dalla fervida ricerca delle “nuove scuole”, vediamo come le compagnie si prestino il pubblico a vicenda. Encomiabile, non fosse che, spesso, è tutto ciò che accade, senza che pubblico fresco e vergine varchi poi effettivamente la porta.
Rischia di diventare un luogo comune e, anzi, un bizzarro motivo di vanto snob il fatto che a certi spettacoli si ritrovino sempre le stesse poche decine di persone, quasi che piaccia sentirsi un po’ incompresi, un po’ di nicchia, superiori rispetto al gioco sporco della grande industria teatrale, quella che macina biglietti, prenotazioni e recensioni. Eppure biglietti, prenotazioni e recensioni, oltre che soldi, significano pubblico e pubblico significa consapevolezza, presenza reale, interazione. Sarebbe bello che certi “mammasantissima” della ricerca fossero conosciuti dal grande pubblico, non solo attraverso studi universitari o riviste specializzate, ma anche solo per sentito dire, così come pochi sono quelli che non conoscono Beckett, Brook o Stanislavskij stesso che, in tempi e luoghi diversi, fecero la storia dell’avanguardia. In qualche modo, e ha ragione quindi Sorace, è proprio il teatro di ricerca ad aver più bisogno di pubblico, di pubblicità, esigenza di farsi accattivante. Istituzioni e giri di soldi permettendo.
La mancanza di un vero e proprio teatro visuale in Italia non è che un esempio, e i due discorsi sono altrettante motivazioni che si intrecciano. Non c’è spazio per nuove definizioni perché manca la rete che ne insegni i termini, e manca quella rete perché non c’è il coraggio di rompere di più con un linguaggio che tiene ancora fuori alcuni neologismi. Siamo tutti contenti che alcuni nostri spettacoli volino via per terra e mare, un po’ meno che il loro successo ci arrivi solo come orgoglio nazionale, piuttosto che come contributo a una rete che, all’estero, esiste eccome, ed ha un codice egualitario esemplare, in cui ogni risorsa ha il proprio spazio.
Proprio quest’identità di vetrina non competitiva, ma piuttosto di scambio tra le varie realtà internazionali, favorisce il nascere e un progredire velocissimo di nuove idee, nuove proposte, nuove soluzioni sceniche che si arricchiscono di volta in volta, di anno in anno. Il Mime Fest è diventato una sorta di istituzione, un appuntamento annuale per il quale le compagnie preparano appositamente spettacoli e che spesso è in grado di commissionare alle stesse le novità della stagione. Molti dei più grandi artisti del mimo, dell’acrobatica, di danza e teatro-danza, del teatro di figura, della tecno-scena e in generale della ricerca visiva europea ormai scelgono il LIMF per mettere in prova i nuovi lavori. E qui ci riallacciamo al discorso iniziale.
Se si sceglie un festival per “provare l’effetto sul pubblico” significa che quel pubblico c’è e che non è mai lo stesso. È un laboratorio di ricerca accettato da tutti, cui hanno accesso utenti provenienti da strati diversi della creatività e della fruizione: da artisti visivi a pittori, da film maker a drammaturghi, da amanti dell’opera a poeti, studenti e professori universitari.
Al quarto anno consecutivo di frequentazione del festival, posso dire di avere un’idea chiara dell’atmosfera che lo pervade. Punto focale e vincente del suo valore è l’opportunità, offerta da tutte le compagnie su richiesta dell’organizzazione stessa, della cosiddetta “after show discussion”. Nei giorni di replica, vengono fissate una o più serate in cui la compagnia incontra il pubblico a fine spettacolo, per una sorta di dibattito informale in cui, in genere nello spazio del bar-foyer, si anima una discussione su quali siano stati i termini della ricerca, su quanti e quali progressi stia facendo la compagnia e sulle prospettive di lavoro futuro. Come se, profeti di una comunicazione multistrato, gli artisti concedessero ogni volta un’intervista di massa, senza bisogno di andare a stanarli nel loro camerino. E non stiamo parlando di teatro amatoriale, ma di artisti come Figurentheater, Faulty Optic, Buchinger’s Boot, Circus Kletzmer, Barcelò e Nadj e via dicendo. Monstrum dell’avanguardia visiva.
Capita, sì, di rivedere, a un anno di distanza, le stesse persone tra le file del Barbican o dell’Ica, capita. Ma è solo un piacere, un motivo per scambiarsi uno sguardo d’intesa e per lasciarsi andare, subito dopo, a gustarsi discussioni salmodiate in lingue differenti, testimonianza che si tratta di un evento davvero internazionale.
Un modello da tenere sempre presente, passando un inverno in Europa, in attesa, se non di un equivalente italiano, almeno dell’arrivo dell’estate e di festival come Avignone o Edimburgo.