In occasione del lancio, da parte di Riccione Teatro, di “Scritture”, la nuova Scuola di Drammaturgia diretta da Lucia Calamaro, nata da una inedita e preziosa collaborazione con il Teatro Stabile di Bolzano, Teatro della Toscana, Teatro Bellini di Napoli e Sardegna Teatro, abbiamo deciso di intervistare la drammaturga romana per approfondire non solo il nuovo e articolato progetto, ma anche alcuni aspetti relativi a una drammaturgia spesso carente sulla scena italiana.
La Scuola sarà aperta a quindici partecipanti, che verranno selezionati tramite bando (in scadenza il 10 aprile e online sul sito www.riccioneteatro.it). Sarà itinerante, con appuntamenti in tutti gli spazi messi a disposizione dalle realtà coinvolte, dal 24 maggio al 21 novembre 2021: otto settimane piene, da lunedì a domenica, intervallate da periodi di lavoro individuale. L’esito finale del percorso, scandito da lezioni, masterclass con ospiti speciali e prove, sarà la presentazione pubblica dei testi, con una serie di mise en espace.
Quali saranno gli strumenti e i meccanismi che intendi usare nel corso del progetto?
Purtroppo devo andare un po’ fuori tema, perché non so risponderti con parole precise come le tue.
Non userò né strumenti né meccanismi, ecco, o almeno io non credo di poterli chiamare così. Ci sono però delle regole di percorso, dei movimenti, che cambiano a seconda degli individui nel mio modo di aiutare i partecipanti ad entrare in ascolto di quella che potremmo chiamare la parte migliore di loro, non in assoluto, migliore in senso artistico, quella parte di ognuno di loro con più senso condiviso e più fascino.
Il resto consiglio sempre di lasciarlo a casa, di non metterlo nel proprio fare artistico, che riceve solo un 30% dell’essere umano che uno è.
Tutto ciò, secondo teorie tutte mie, stratificatesi con la pratica del fare e dell’insegnare, che non hanno nessuno corrispondente nella realtà .
La parte migliore per me coincide, in qualche modo, con la forma che deve prendere quell’artista per riuscire a stare al mondo, per farsi, cioè, riconoscere. Ciò almeno per un po’. Poi si cambia forma.
Imprecisione, simpatia, diversità, smarginamento, stramberia, sono le parole a me più vicine.
Una donna, un uomo che scrive, sono esseri in fuga. Da cosa, lo sanno loro. E anche quando lo dimenticano, io riprovo a ricordarglielo.
Perché la drammaturgia è spesso stato l’anello debole di molti dei testi contemporanei che negli ultimi anni sono stati messi in scena nel nostro Paese?
Non sono brava a giudicare oggettivamente la qualità del fare degli altri artisti, sono soggettiva e di parte, quindi dò per buona la tua affermazione perché hai uno sguardo più trasversale.
Oggettivamente posso solo dire che la formazione delle scuole di teatro in Italia si è concentrata per decenni sull’attore, poi sulla regia, con eccezione della Paolo Grassi, o del temporaneo laboratorio del Valle, “Crisi”, e di altri episodi geograficamente circoscritti.
Mentre in Francia, in Inghilterra e in Germania è stata presa in mano da veri e propri giganti istituzionali.
La pratica dell’autorialità teatrale, per quel ne so io, qui si è sviluppata puntualmente a bottega: si impara da altri che scrivono, seguendoli nel loro fare, o si impara da soli leggendo, scrivendo e mettendo in scena, sbagliando e aggiustando il tiro.
Non c’è stata finora abbastanza attenzione, da parte delle istituzioni, al racconto che questo Paese poteva fare di sé, attraverso la scena teatrale.
Ma ora si comincia. E magari, invece di continuare a sfornare generazioni di attori come se ci fosse un domani per tutti, il sistema “scuole di teatro” potrebbe essere seriamente ripensato intorno alla proliferazione di altre figure.
Manca infatti una tradizione istituzionale di trasmissione dei saperi della pratica della scrittura per il teatro.
La parola teatrale è sempre parola bucata ad arte, la cui trama stratificata esiste nella sua totalità solo quando esiste l’avvenimento, il fatto spettacolo.
E’ un luogo complesso, una scrittura che è specifica, è unica, che secondo me non viaggia senza attori, perché ha bisogno di essere detta; e neanche senza spettatori e palco, perché va ascoltata dal vivo, in quella situazione lì e non in un’altra, al buio, verso le otto, quando il cervello è in fase sintetica e non in fase analitica. Da lì l’orrore delle esperienze delle matinée con altra gente affianco di cui non sappiamo nulla, ma con i quali condividiamo la stessa esperienza, incluso l’applauso, che è un fatto sonoro unico. Un coro di mani.
Quali sono le qualità che dovrebbe avere, secondo te, una drammaturgia adeguata?
Guarda, onestamente, io so che annoio spesso il mio pubblico, poverino, come altri spesso mi annoiano, quindi non ho la pretesa di avere la ricetta giusta, le percentuali, il rapporto aureo tra le cose. Non annoiare sarebbe già un buon punto di partenza; non pretendere dal pubblico ascolto e attenzione, senza aver capito molto bene cosa e come offriglielo, non dimenticare lo spettatore, mai, mentre scrivi.
E poi certo non deve essere considerata solo scrittura; c’è carne, c’è legno, c’è il pubblico da includere, c’è il simbolo, il segno, la molteplicità dei racconti, i personaggi fascinosi, le poltrone scomode, gli odori, la promiscuità e tutto questo deve essere presente nelle parole.
E’ una pratica difficile, che non va separata dallo spettacolo, e qui mi ripeto, ma ci tengo: non c’è drammaturgia se non inclusiva di tutte le altre variabili della cosa teatro, che ha bisogno, tra l’altro, di un gran numero di esseri umani per essere sé stessa.
Quali autori italiani contemporanei, in questo senso, prediligi e quali invece gli stranieri?
E’ da tanto che non leggo più teatro, viaggio su saggi e poesia, non posso quindi più rispondere con un minimo di onestà a questa domanda. Ma da anni. Non credo che il teatro si nutra di teatro. Ma è solo la mia opinione.
Di cosa dovrebbe parlare il teatro in questo difficile periodo e di cosa dopo?
Anche qui, non lo so. Siamo quasi tutti preda. Quasi tutti predatori. Il discorso che verrà è una deriva incontrollabile del presente.
Non credo si possa o debba orientare, solo ricevere e forgiare al meglio.
Uno degli obiettivi principali di questa scuola è forse, in parte inconsciamente, anche rispondere più precisamente a questa tua domanda.
Come ci hai dimostrato ampiamente, per una drammaturgia sono importanti soprattutto le parole. Si possono creare oggi drammaturgie senza la parola? E in che modo?
Dipende un po’ cosa intendiamo per drammaturgie.
Se per drammaturgie tu intendi, come lo intendo io, spettacoli, ti direi certo. Sono belli. Sono bravi quelli che lo fanno. Li ammiro. Io pero non li so fare. Quindi il come, va chiesto a loro.
In che modo le altre componenti della scena possono determinare l’efficacia della drammaturgia?
Il lato profondamente ibrido e intrecciato, ambiguo e sregolato dell’oggetto teatro non permette, per me, l’identificazione della drammaturgia solo con il corpus di parole.
Quali sono i tuoi progetti di spettacolo in atto?
Quello su cui sto lavorando oggi si chiama “Darwin inconsolabile. Un pezzo per anime in pena”.
E’ uno spettacolo per me delicatissimo, a cui tengo in un modo che non so verbalizzare, ma forse il titolo è un buon indizio.
E’ prodotto dal Teatro di Sardegna, debutterà il 2 luglio a Spoleto, e ho quattro splendidi attori: Riccardo Goretti, Gioia Salvatori, Simona Senzacqua e Mariagrazia Sughi. E sono così con le mani in pasta, che per il resto mi taccio.