Ce la mettiamo tutta perché questo articolo non sia né un elogio di Roberto Latini, né il semplice racconto di un’esperienza. A quelli che ci rimproverano di essere critici egotistici risponderemo che non siamo critici ma cronisti e che siamo soddisfatti di avere ancora, come capita con questo “Lucignolo”, qualcosa da raccontare. Il compito è quello arduo di rendere intelligibile e concreto qualcosa che poco ha a che fare con l’analisi e molto con un’esperienza, uno spaesamento, con una potenza alla quale è necessario rispondere con l’arma bianca della testimonianza.
C’è un solo attore in scena, ma non una sola presenza. Incombe una corda legata a cappio. Come presagio appiattito nei fondi del caffè, la corda sta immobile e ben incorniciata dalle luci, in attesa. L’uomo porta avanti la propria storia sconnessa, grottesca, piena di inciampi e preposizioni lasciate a metà.
Latini costruisce un Lucignolo perfido, che muore e risorge dieci volte a scena, una scheggia impazzita che cerca il proprio senso sotto un diluvio di sintassi fatta a pezzi. È una drammaturgia di frammenti, lanciata in faccia al pubblico con la stessa forza e la stessa casuale energia con cui un bimbo prende a calci i propri giocattoli.
Seduto, sotto una luce che lo appiattisce, gli occhi coperti da lenti a contatto bianche, Lucignolo ha lo sguardo cieco di un indovino inascoltato. Il suo monologo, seppur pieno di pause e gesti muti, è una mitragliata senza respiro, giocata sui ritmi ora dell’urgenza, ora del gioco, ora della confessione strappata a un indiziato. Il passo avanti nel percorso di Latini (che con questo “Lucignolo” inaugura una nuova ricerca dal titolo “Noosfera”) è una distruzione preventiva: il lavoro sulla vocalità e sul corpo come cassa di risonanza, che prima lo caratterizzava così puntualmente, scende ora i gradini di una rappresentazione più artigianale, senz’altri medium che la musica (di Gianluca Misiti, qui molto presente) e l’ingombro di un corpo che è potenza naturale, non diversa da un temporale, con tutti gli elementi al proprio servizio.
La parola diviene una pioggia fitta, disegnando evoluzioni quasi pre-grammaticali, istintive come gli scarabocchi dei bambini (“ma” diventa “mamma”, che diventa “m’ammazzi” o “ma mi fai male” etc., mentre il Paese dei Balocchi sembra una casa isolata brulicante di pedofili famelici), avvicinando sempre di più il collo dello spettatore a quel cappio. E poi un bel calcio alla sedia. Ma non finisce qui. Latini rientra per ricominciare uno spettacolo completamente diverso, lottando con il pavimento che è coperto d’acqua, come una bestia che non riesce a rialzarsi. La durata prende forme altre, i minuti si dilatano e collassano nell’impietoso rumore dell’acqua che schizza sulle prime file e in quello sguardo cieco del bambino che si trasforma in asino.
Abbiamo provato a comprendere dove stiano portando i passi di Roberto Latini, ma raccontarlo, questo spettacolo, è impossibile. A distanza di giorni, il disagio vissuto di fronte alla freddezza di questo grande artista resta condensato in cristalli di pura inquietudine. Scriverne significa tornare con la mente a un brutto ricordo che non si vuole rivivere. Come fossimo stati tutti, quella sera, testimoni casuali di un brutale atto di violenza.
NOOSFERA – LUCIGNOLO
di e con Roberto Latini
musiche originali: Gianluca Misiti
luci e direzione tecnica: Max Mugnai
organizzazione e cura: Federica Furlanis
durata: 58′
applausi del pubblico: 3′ 12”
Visto a Roma, Teatro Argot Studio, il 2 novembre 2010