Seguendo l’uomo che cammina di Dom-. Roma tra pietà e terrore

Photo: Aldo Marinelli / lamiaostia.com|Photo: Aldo Marinelli / lamiaostia.com
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Alle 16.30 i turisti nei bar-ristoranti del centro di Roma sono intenti in un pasto imprecisato e imprecisabile, senza nome. Il cielo azzurrissimo si incastra nelle spezzature tra i palazzi: come l’acqua, sembra non avere forma. Tagliando per un angolo del vecchio ghetto sbuchiamo in piazza Venezia, e saliamo al colle sacro, il Campidoglio.
Qui l’alma lupa capitolina grida dai due emicicli, i turisti sgranano gli occhi, insaccano il capo nelle spalle, e le coppie di sposi sudano.
Mentre scendiamo ai Fori imperiali per una scalinata nascosta, qualche striatura di smog impolvera il cielo, sopra i parallelepipedi dei mercati traianei. Gradino dopo gradino in lenta assolvenza si mescolano le lingue dei venditori di pupazzi di plastilina, dei selfie-stick e dell’acqua congelata: «Uaniuro-niuro-niuro», un euro a bottiglietta.

“L’uomo che cammina” è inconfondibile, e lo seguiamo in gruppo tra la folla, senza difficoltà. Alto di statura, magro, ha i capelli bianchi lunghi e una camminata elegante ma sciolta. Sfila accanto a noi anche Valerio Sirna, in nero, con la cassa sulle spalle che accompagnerà lunghi tratti del nostro percorso. L’uomo misterioso sfiora il Colosseo, costeggia il Palatino, si divincola tra i passeggeri dei big bus turistici, addenta una fetta di cocomero alla bancarella e imbocca la fermata metro Circo Massimo.
Noi, gli “spettatori”, sempre dietro.

Rieccoci all’aperto, fermata Eur Magliana, parcheggio multipiano, e dall’ampia scalea candida del secondo Colosseo (è il Palazzo della Civiltà del Lavoro, ma i romani lo chiamano il Colosseo quadrato) una figura porporata, comparsa dal nulla, scende come dalla rampa di un tempio, solenne, propiziando un rito.
Ma l’uomo procede, e noi dietro. Alla fermata dell’autobus una fumatrice in burka emette sbuffi verticali attraverso il velo, mentre distratti incespichiamo sullo sgranato pavé di porfido e rotoliamo fino alla basilica di San Pietro e Paolo, dove una voce adenoidea e blesa arranca nell’acciottolio di un rosario al microfono.
Sediamo appena sulle panche, e già il nostro uomo è fuori, attraverso la sagrestia, ci guida costeggiando una comitiva di ragazzacci in nero e una bianca prostituta dall’ombelico scoperto sul ventre trasparente; scendiamo nuovamente per gradini tortuosi, sbocconcellati, che vanno giù alle spalle della chiesa, cosparsi di cartacce e intrisi di urina; attraversiamo una strada rapida, ed eccoci in uno dei luoghi di elezione di Sirna e Leonardo Delogu (Dom-), i luoghi che tutti chiamano “marginali”, quelli che fanno da terreno di contesa e di sutura tra una fascia urbana che ignora le dinamiche della città e una rurale che resiste muta, respirando a naso in su, con la proverbiale acqua alla gola. Dove sembra che non succeda nulla, ma succede molto.

L’immondizia. Non la robaccia sparpagliata, disseminata fino al centro: l’immondizia di questi luoghi è quella vera, quella pesante. Quella aggressiva. Attraversato il Tevere sul viadotto della Magliana, seguiamo l’uomo che cammina tra i resti di ubriacature e coiti, mentre piano piano l’esogeno prende possesso dello spazio, della terra: la colpa non è del vento né dell’incuria, ciò che ci circonda è l’inquietante risultato di una volontà di rifiuto molto precisa che disegna questi cimiteri dei nostri tempi. Sono oggetti una volta acquistati magari a caro prezzo, ora da bandire dalla vista, dai nostri paraggi più prossimi, a qualsiasi costo. Da raccogliere e scaricare lontano, perché non ci torturino con la propria presenza. Cominciano vetri e vasi spaccati e l’onnipresente rete arancione da pollai. Mattonelle, piastrelle, calcinacci pian piano si ritrovano in isolotti, bassopiani e collinette, poi dietro un pilone del viadotto, eccolo, sembra respirare, tutto grigio, verde, marrone: un Golgota di materassi in putrefazione. E muraglie di bombole del gas, scrostate ma fiere; gineprai di molle di reti di divani, poltrone esplose come ricci vuoti; promontori, arcipelaghi di panni e scarpe e coperte e cuscini e ciabatte e le reginette dell’orrore da discarica, le bambole, nelle più oscene pose da contorsioniste, sfondate nel cranio o disseminate in vivisezioni; scatole, barattoli, bottiglie, cassette, flaconi, fustini, brik, tutto un campionario di contenitori, epidermidi sviscerate; e infine, lente come pachidermi, automobili posano in un letargo melanconico, ora accucciate a muso basso e occhi vuoti, ora su un fianco fetali, impegnate in un assiduo processo di ossidazione. Dietro, da qualche parte, fumiga dell’incenso, acceso in un barbecue dalla sacerdotessa in porpora di prima. Avvolge tutte le cose, insieme alla musica che viene dalla cassa-zaino di Valerio Sirna. Tutti camminiamo nello stesso modo e allo stesso tempo: gli unici passi ammessi in questo regno, che è un regno infernale.

Le anime: tra simili contrade esistono abitatori, la semplice tenda avvinghiata al viadotto o la struttura fatta di sopraelevazioni, concrezioni, derive e metastasi, e poi, appena fuori, la scatoletta sorda, il minimo abitativo, con veranda e graziosa tinta pastello, dove sbraita Barbara D’Urso. E una dolce pietà ci opprime nel vialetto quasi allegro di una borgatella improvvisata in cui si sta fuori tra vicini a prendere il fresco smog del tardo meriggio. Ma siamo passati: pochi passi, eccoci in campagna.

Oltre lo scheletro di un cancello, sulla massicciata di una collina, si mostrano di lontano il Colosseo quadrato e la cupola della basilica e quel vecchio mattacchione del “fungo” dell’Eur, in perfetta sequenza, prima del palazzo alato del nuovo centro commerciale. La campagna, il tramonto. La strada è diventata un sentiero, l’asfalto terra battuta, svoltiamo un tornante, e avvolta nel caldo odore della merda di pecora la luce del sole dell’ora perfetta, tenera e forte accarezza radente gli sterpi che si arrampicano sul versante della collina e le rovine di un edificio circolare dietro cui pascola un gregge come forse negli antichi fondali boscherecci, o nelle graziose stampe con rovine del secolo decimottavo. Tutto è silenzio.

Photo: Aldo Marinelli / lamiaostia.com
Photo: Aldo Marinelli / lamiaostia.com

Bisogna interrompersi, per ora. L’uomo che cammina di Dom-, in versione romana per Short Theatre 2018 non finisce qui, continua per un’avventura di quasi sei ore totali, in un esperimento che ha la forza sia di saper strappare alla condanna estetica (ma non etica) l’orrore che ci circonda e soffoca, sia di elevarci con la leggerezza di un’ascensione alla fruizione di attimi di bellezza incontrovertibile.

Gli strumenti tecnici, oltre a un attento calcolo di tempi e di dinamiche, sono l’interpolazione di frammenti di performance all’interno del tragitto, grazie alla presenza di Mario D’Amico, Marta Oli e dei due creatori. Queste presenze conducono la percettività di chi partecipa su un piano di fertile ambiguità: la donna che vediamo correre è una passante, o una “comparsa”, che agisce a bella posta? La musica che sentiamo uscire da una finestra è programmata? La bambina che solfeggia ostinata «Nani-noni-nani» seduta sul gradino di una bottega convertita in monolocale ci conosce, sa chi siamo? Perché tanti ci salutano?

La nostra attenzione è vigile al punto da far male, la realtà è riscritta sulla base di quell’ambiguità, e finisce per sembrarci affrontabile, dettata da leggi umane e non più indecifrabili e misteriose. Il mondo ci si avvicina mentre noi ci avviciniamo a lui.
Ma nei passaggi al “margine” di cui dicevamo non vi è mai l’ombra di una pelosa indulgenza, né la strizzata d’occhio verso un brutto rassicurante, vintage.
Quanto del Pasolini delle borgate è nello spirito dell’operazione (potrebbe non esserci?), lavora in una posizione di puro propellente, esattamente come nei romanzi di Walter Siti, parafrasato nell’esergo della presentazione. Non potrebbe essere altrimenti in chi conosce la verità del ‘Pianto della scavatrice’, i cui primi versi sono diffusi dalla cassa di Sirna.

Non basta. Quello di Sirna-Delogu non è un lavoro semplicemente sui mezzi e sul contenuto. È un lavoro sullo statuto del genere rappresentativo, che pur non superando sé stesso quanto a risultati sugli spettatori (terrore e pietà, e scusate se è poco), produce nei fatti un’opera singolarmente antiteatrale.
Non basta parlare di teatro site-specific, o far riferimento a progetti di drammaturgia itinerante, vi è dell’altro. Se il teatro, al netto delle avanguardie, è consistito spesso nel costruire in un luogo neutro un incontro di fattori tecnici, dalla voce al testo al movimento allo sfondo, e nel tentare l’alchimia dell’unione, con “L’uomo che cammina” il pubblico è spinto ad andare “fuori” in cerca della miracolosa emersione di quegli elementi in re. Gli autori esploratori non li creano, li porgono. Vi aggiungono qualche enzima, qualche facilitatore: la guida dell’uomo che cammina, i frammenti performativi, la musica.
Forse l’espressione antiteatrale va dunque corretta con preteatrale, o meglio cis-teatrale, che mantiene l’esser prima sia nel tempo che nello spazio: al di qua di un fatto teatrale costruito, al di qua del ruolo demiurgico, dittatoriale, romantico-borghese dell’autore; ma anche al di qua del luogo deputato, quale che sia.
Il cis-teatro di Dom- ci riporta alla condizione addirittura pre-classica e pre-formale di un laboratorio aperto e grande, il mondo, che non è un luogo circoscrivibile ma uno scorrere ininterrotto, ancora da ordinare in una forma di conoscenza trasmissibile. Come se fossimo quei primi uomini che, dopo aver riconosciuto in sé lo sconvolgimento di un’esperienza reale, l’hanno nominato e ne stiano per immaginare una formalizzazione.
Non è possibile sottovalutare le prospettive di una tale proposta.

Ma intanto ‘l’uomo che cammina’, il nostro, quello dai capelli bianchi lunghi, non si è fermato, non ha esaurito la sua esperienza romana in quella campagna al tramonto.
Chi fosse quella misteriosa guida l’avremmo scoperto una volta ridiscesa la collina, richiamati da un’eco di bambini e cani proveniente da una lunga teoria di caseggiati popolari del secolo scorso: avremmo visto la sua faccia enorme su un palazzo, sotto forma di graffito. È Mario D’Amico, inventore e agitatore dei Pittori Anonimi del Trullo. E la donna che gli avrebbe camminato a fianco nell’ultima parte della giornata, che dal lungomare conduceva all’impressionante groviglio narrativo, edilizio, umano dell’Idroscalo di Ostia, è Franca Vannina del Comitato Foce del Tevere.
Ma questa, anche se la giornata è stata soltanto una, è proprio un’altra storia, come dicono, ed è troppo grande per farla stare così, in poche righe di chiusa.

L’UOMO CHE CAMMINA
creazione e drammaturgia spaziale a cura di DOM-
Leonardo Delogu, Valerio Sirna, Helene Gautier
regia Leonardo Delogu, Valerio Sirna
prodotto da PAV con il sostegno di Short Theatre, Teatro Stabile dell’Umbria
con Mario D’Amico
e con Natalia Agati, Mattia Fiorenza, Matteo Locci, Marta Oli
con la partecipazione speciale di Franca Vannini  eil Comitato Foce Tevere
organizzazione Francesca Agabiti
documentazione fotografica Claudia Pajewski
documentazione video Giulio Boato, Lorenzo Danesin
sponsor tecnico Kublai
liberamente ispirato al fumetto di Jiro Taniguchi – L’uomo che cammina
ogni allestimento, a seconda delle caratteristiche del territorio, si avvale anche della collaborazione con associazioni culturali, comitati di quartiere, centri anziani, scuole, centri per il sostegno ai migranti, corsi di danza e di teatro, bambini, gatti e piccioni

durata: 5h 45′

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