Una mot-valise è quel tipo di neologismo (“sincratico” lo chiamano i tecnici) nato dall’unione di due parole, di cui sono un esempio “Brexit”, “spanglish”, e persino “Brangelina” (per scendere fino a quelli che una volta si chiamavano “i rotocalchi”).
Chissà se poteràz, nucleo tematico del “Macbetto” di Giovanni Testori, fa parte della categoria. Potere + cazzo (caz nell’idioletto testoriano), significa insieme la foia sessuale e di potere, il trionfo maschile della sopraffazione della penetrazione, dell’ammazzamento.
Ma il laboratorio linguistico e filosofico del “Macbetto” (in scena per la prima volta nel ’74 grazie alla ditta Parenti–Shammah) non è un palinsesto statico e pacificato, un quieto rispecchiarsi di opposti, maschile e femminile, potere e vittima. Anzi, questo duplice tema nel testo testoriano è immediatamente sfregiato, diviso, scagliato contro sé stesso, messo in crisi.
Così la Ledi – in questo modo, milanesemente, è nominata Lady Macbeth – dichiara che il suo clitoride «più del sesso d’un aseno di monta / è turgedo e acciaresco». E Macbetto, il pavido, da parte sua “partorisce” quella stessa strega che gli offrirà le tre famose premonizioni attraverso le quali si compirà l’opera. In che modo? Non grazie a un «forcipo», ma a un pugnale («Is this a dagger…?» si chiedeva in Shakespeare, «Mi s’affaccia un pugnal…» parafrasava Piave per Verdi), col quale si incide tra ano e sesso, dando alla luce il proprio destino nella forma di un enorme e stregonesco fecaloma.
D’altronde la nebulosa dei temi dell’espellere e dell’accogliere, dell’inturgidirsi e del rammollirsi, della corona e del fallo, racchiusi nel macro-tema dell’opposizione potere/impotenza e maschio/femmina, è elevata ben al di sopra del mero discorso polemico. Testori ci conduce attraverso la sua lingua miracolosa e spaventosa (espressionismo macheronico, la chiamava Giovanni Raboni) verso un simbolismo la cui grumosa, incrostata faccia è grattata, scavata, penetrata – appunto.
A partire da questo materiale Roberto Magnani trae il suo “Macbetto o la chimica della materia”, “trasmutazioni da Testori” andate in scena a Roma all’Angelo Mai, curandone anche ambiente scenico e costumi. L’operazione si attesta su un generoso numero di tagli nel testo originale, che eliminano di netto il coro e i vari coristi, singoli interlocutori dei protagonisti.
È forse più conveniente leggerla come una ricca e ragionata antologia del testo d’origine, incentrata sui tre protagonisti: Macbetto (lo stesso «slaringiato» ed esattissimo Magnani, tra lo Zanni che mangia sé stesso e il Benjamin Willard di “Apocalypse Now”, impastato di fango); la Ledi (la pastosa ma tagliente Consuelo Battiston, che si staglia sotto la prima luce con un profilo indimenticabile); e la strega, che parla una voce registrata ed è rappresentata dal groviglio di membra madide di Eleonora Sedioli, figura scenica perfettamente rispondente al «grosso pipistrello senza volo» sognato da Testori, di cui non vediamo mai il volto.
Eppure, anche così snellito e seppure amputato della sua dimensione comunitaria (ma alcuni versi del coro sono recuperati e restituiti agli altri interpreti), il testo regge ottimamente, con autorevolezza, e il progetto di Magnani dimostra di essere lungimirante, solido, efficace.
Scena e luci fanno del vintage la loro chiave espressiva: cellophane, tinte shocking, vecchio televisore a tubo catodico che trasmette una colonscopia, toletta per il trucco degli attori a vista, portale a sinistra su cui Macbetto avvierà il testo alla conclusione, a esso avviticchiato come un San Sebastiano…
Supportata da tale contesto scenico, la parola di Testori emerge in tutta la sua crudezza, si sporca letteralmente del sangue che viene sparso copioso in scena e del fango che ricopre la camicia nera e i calzoni alla zuava del protagonista; la sua lingua cattura e ferisce lo spettatore, riporta sé stessa all’elisabettiano più cruento e senechiano. Ottiene dunque il suo successo massimo: far rivivere una parola inaudita come quella testoriana, che è già, sulla pagina, teatro.
E se qualcuno trovasse difficoltà nell’associare l’idea di un bombardamento di gas intestinali sull’esercito del povero Macduffo (una morte covata nelle proprie viscere e scaricata sul mondo a distanza) ai bombardamenti più recenti, o se si fosse insomma tentati di relegare a un universo statico di archeologia meramente letteraria quei temi e quelle riflessioni tra biologia, politica e identità, risponderebbe immediata, urgente, la Ledi, con la denuncia/profezia sotto finale, che inneggia alla «gloria della figa» pronta a mostrarsi al mondo. «La gloria d’esser de tutto e de tutti / la nàssita, la tetta / la latrina e anca il cesso».
In scena dal 7 al 9 febbraio al Teatro delle Moline di Bologna.
MACBETTO o La chimica della materia
Trasmutazioni dal “Macbetto” di Giovanni Testori
ideazione e regia Roberto Magnani
con Roberto Magnani, Consuelo Battiston, Eleonora Sedioli
musica Simone Marzocchi
coreografia Eleonora Sedioli
tecnica Luca Pagliano
clavicembalo Chiara Cattani
realizzazione scene Masque Teatro
squadra tecnica Teatro delle Albe-Ravenna Teatro: Danilo Maniscalco, Fabio Ceroni, Luca Pagliano, Antonio Barbadoro
cura video Alessandro Renda
foto di scena Enrico Fedrigoli
organizzazione Francesca Venturi, Ilenia Carrone
produzione Teatro delle Albe/Ravenna Teatro, Masque Teatro, Menoventi/e-production
ringraziamenti Associazione Giovanni Testori, A.N.G.E.L.O., Sabrina Fiore, Matteo Gatta, Maria Rossini
durata: 1h 20’
applausi del pubblico: 2’
Visto a Roma, Angelo Mai, il 31 gennaio 2020