Macchine sonore e sculture cinetiche per Vera Stasi

On Off

On Off
On Off (photo: verastasi.com)
Sappiamo che avremo a che fare con degli interruttori, con la meccanica, con un tempo finito. Ce lo dice il titolo, On Off.
Nel foyer del Teatro Vascello si scatena un fracasso di piccole esplosioni e veniamo accolti da tre sculture cinetiche. Tre robot, di cui due antropomorfi, che sferragliando voltano il capo e seguono il movimento con occhi elettrici. Affascinante, senza dubbio.
In sala. Il proscenio è presidiato da una nuova macchina sonora sulla sinistra e da un robot in piena regola a destra. È lui a introdurre, chiedendoci se abbiamo intenzione di parlare di meccanica, di questo o di quello. “No, voi volete parlare di robot”. Ci viene da rispondere di sì. “Ma non oggi”, risponde lui serafico, né si muoverà più fino alla fine.


L’idea dell’automa è molto usata sulla scena contemporanea europea e spesso ci lamentiamo di non vedere abbastanza teatro visuale in questo Paese, ché quella è forse la vera nuova frontiera dell’espressività, sicuramente se è di danza e movimento che parliamo. La coreografia meccanica sembra essere il naturale prosieguo di quella multimediale: quella proiettata, per intenderci, in pezzi di video arte, mentre sulla scena agiscono attori e danzatori.

Con questo On Off Vera Stasi sembra ricavarsi un cantuccio in questi presupposti. La coreografa Silvana Barbarini collabora con lo scultore-inventore Johannes Dimpflmeier, che costruisce per lei sculture cinetiche e macchine sonore. Queste ultime (al punto da avere il nome in locandina: Wien Trombone, Kranius, Golupcik etc.) conquistano a spada tratta gran parte del merito dello spettacolo, che rivela qualche imperfezione dovuta principalmente all’esaurirsi degli stimoli di cui una buona idea ha bisogno per sopravvivere.
Sulla scena si alternano suggestioni raffinate e suggerimenti un po’ didascalici, come l’immagine dell’essere a sei braccia (tre danzatori in fila indiana) che viene “distrutto” dal passaggio dell’essere umano. Questo genere di composizioni funzionano se presentate in modo rigoroso. In questo caso specifico, l’illusione ottica sopravvive soltanto se si osserva il tableaux frontalmente. Ma il palco del Vascello è largo e rasoterra, gli occhi del pubblico si schierano a salire la gradinata ed ecco che i punti di fuga si moltiplicano, sottraendo efficacia al tutto.
Meglio allora puntare su generose macrocoreografie, che per Barbarini si potrebbero riassumere, spesso con buon successo visivo, in “sparpagliamenti caotici”. Laddove il riempimento dello spazio potrebbe sembrare gratuito, ci pensa un buon organico danzante. Si insiste molto nello scandagliare ogni meccanica del corpo umano, alla ricerca di determinanti e derivanti dei movimenti, che sempre di più, dall’umano, invadono il campo del robotico.
Ma c’è soprattutto, imperante, un grande lavoro sul suono. Ogni quadro ci presenta i “danz-attori” alle prese con una nuova applicazione del semplice principio di amplificazione del suono. Ci si sente licantropi o stregoni, se ci si trova nella posizione di poter udire amplificato ogni piccolo suono prodotto. Microfoni a pulce vengono incaricati di ritrarre a doppio decibel ogni infrazione del silenzio, dal semplice strusciare dei piedi al più complesso cigolare delle articolazioni. Allora uno stetoscopio montato su ginocchio di una e gomito dell’altro diviene qualcosa di simile a un’assordante ecografia, soprattutto se i due ingaggiano un duello di lotta acrobatica.
Di tutti questi microsuoni, poi, può capitarci di udire la riproduzione secca e nuda, forte quasi da far fischiare le orecchie, così come ingegnose modifiche apportate live da dietro una consolle di effetti audio, che passa di mano in mano e le cui manopole sono in grado di trasformare tonfo in grido, cigolio in lamento, scroscio d’acqua in terremoto.

Stiamo elencando tutte ottime idee. Idee che, con più rigore, basterebbero a se stesse, non fosse che la durata della performance sarebbe stata troppo breve. Allora Vera Stasi riempie la scena di tentativi, alcuni buoni, altri meno, correndo il rischio di sovraccaricare e di far perdere il punto.
Cogliamo l’idea che al freddo dei robot si voglia contrapporre il calore della carne, ma per presentarla si è scelta una via davvero impervia: le ombre, forse il vero punto debole.
La scena è sgombra di quinte, troneggiano solo cinque grandi pannelli bianchi, capaci di scivolare con agilità. Grande potenza ma, ancora una volta, grande rischio. Che la proiezione di un’ombra su uno schermo bianco sia un fatto visivo affascinante siamo tutti facilmente d’accordo. Ma il teatro d’ombre è una cosa ben precisa, una branca dell’arte scenica che possiede storia più antica di molte altre colleghe, che affonda le radici nei primordi dell’espressione mistica e artistica umana. Tutto poi si complica ulteriormente, includendo un intero altro capitolo di studio approfondito, quando si vuole mescolare l’attore all’ombra.
Philippe Genty, uno dei grandi teorici e pratici del teatro di figura, diceva sempre: “Se una cosa puoi farla anche senza, allora non usare un pupazzo”. Significa che, alla base dell’uso della figura, ci sono la possibilità e la volontà di realizzare qualcosa che altrimenti non potrebbe esistere. Si tratta di un gioco di prestigio e, se parliamo di ombre, di una grande, continua e necessaria illusione ottica. Ogni approccio semplicistico alla creazione delle ombre è sul filo del rasoio dell’approssimazione, l’unica regola dovrebbe essere il rigore.
Vera Stasi utilizza la grande potenza dei cinque schermi cadendo troppo spesso in trappole. È il caso, innanzitutto, della visibilità degli animatori dietro gli schermi: gli schermi sono quinte solo quando è buio o quando ricevono luce frontale, ma se dietro a un bianco è accesa una luce, ogni movimento fuor di coreografia è registrato comunque. E stona. Rischioso, poi, l’uso di più luci e più schermi contemporaneamente: l’ombra-contro-ombra come effetto scenico ha vita breve, poi si trasforma in errore, in svista involontaria. E infine, quando si tenta di mischiare attori e ombre bisogna tener presente Genty e creare significanze nette o netti astrattismi. Ogni via di mezzo è un potenziale errore.

Dopo una parte iniziale gradevole ma un po’ a corto d’idee e una centrale che inciampa nelle ombre, sul finale On Off mette a punto una bella accelerazione di ritmo e di impressione visiva e sonora, grazie all’astuto e intrigante gioco della ragnatela creata con un gomitolo di lana che, tirato, è in grado di muovere tutti e cinque gli schermi, come una piccola invenzione meccanica. E grazie anche alle funamboliche sinfonie di rumori create dalle ultime macchine sonore, in definitiva forse più interessanti ancora dei robot, se non altro perché sanno conquistarsi quello spazio di necessità e di insostituibilità preteso da Genty. È quindi grazie al suono, più che agli automi e, ahimè, a molte coreografie, che On Off conserva una propria identità.

ONcominciato OFFinito
di Silvana Barbarini e Johannes Dimpflmeier
coreografie: Silvana Barbarini
strumenti musicali e sculture: Johannes Dimpflmeier
danzatori: Eugenia Amisano, Cristina Failla, Caterina Genta, Nadia Scarpa, Amoni Vacca
con la partecipazione di: Wien Trombone, Kranius, Golupcik e altri
musiche dal vivo: Luigi Parravicini
costumi: Fernanda Pessolano
produzione: Associazione Vera Stasi e MIBAC
durata spettacolo: 59’
applausi del pubblico: 1’ 58’’

Visto a Roma, Teatro Vascello, il 9 ottobre 2008

 

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