GRAHAM – Uguale a me. Più di me. Più di quanto mi sia mai somigliato
GRACE – Insegnami
(Sarah Kane, “Purificati”, Scena V)
Afferma Simone Weil, in riferimento all’Iliade e alla tragedia greca, ne “Il libro del potere” (recente pubblicazione di Chiarelettere che riunisce alcuni saggi della filosofa tedesca): “I Greci ebbero la forza d’animo di non mentire a se stessi; furono ricompensati per questo e raggiunsero nella vita il più alto grado di lucidità, purezza e semplicità”.
E’ il terzo giorno del penultimo workshop del progetto “Maestrale”, ideato e curato da Piccola Compagnia della Magnolia, prima edizione di un percorso di alta formazione a cui i partecipanti hanno avuto accesso tramite bando, e che ha previsto un ciclo di incontri con grandi maestri della scena teatrale internazionale: Declan Donnellan e Nick Ormerod di Cheek by Jowl con “The Carnal Space”; Enrique Pardo e Linda Wise di Pantheatre con “Il teatro coreografico”; Jean-Jacques Lemêtre del Théâtre du Soleil con “Il corpo Musicale”; Oskaras Koršunovas con “Intorno a Sarah Kane”; per finire in questi giorni, fino al 1° dicembre, con Gabriele Vacis e la sua “Schiera. Una pratica d’attenzione”.
Sono seduta tra le prime file del Teatro Fassino di Avigliana, poco fuori Torino; poche poltrone più in là il regista lituano Oskaras Koršunovas osserva in silenzio la restituzione della quarta scena di “Cleansed” (“Purificàti”), testo di Sarah Kane sul quale attori ed interpreti di Maestrale stanno studiando e lavorando in improvvisazione, scena per scena: Giorgia Cerruti, Silvia Degrandi, Fabrycja Gariglio, Davide Giglio, Marco Intraia, Rocco Manfredi, Giuseppe Palasciano, Pier Lorenzo Pisano, Camilla Sandri e Anahì Traversi.
“Non è la prima volta che mi rivolgo alla scrittura di Sarah Kane” si legge sul sito dell’Oskaro Koršunovo Teatras proprio in riferimento a “Cleansed”, una delle ultime produzioni del centro teatrale di Vilnius. “La sua scrittura ha lo stesso tipo di attrazione del disastro e del crimine, è spaventosa e allo stesso tempo pulita (…), ogni parola è inevitabile. La scrittura di Sarah Kane raggiunge l’essenza di un dramma antico e richiede cose difficilmente realizzabili nel teatro contemporaneo, proprio come i “Purificàti” richiedono amore”. E’ una eco alle parole con cui la stessa Kane nel 1998 rispose al critico britannico che definì “violenti” i suoi testi: “I haven’t written violent plays, I’m just trying to be completely honest”.
Osservo la scena, la composizione corale di corpi che attraverso movimenti convulsi tracciano le linee architettoniche e le atmosfere di “La Stanza Rossa – la palestra dell’Università”, scena quarta, dove avviene il pestaggio di Carl. Non ci sono luci, né scenografie. Gli attori si schierano sul fondo nero della scena, il volto coperto da una calzamaglia o avvolto in un tessuto scuro, i corpi si dilaniano come sotto i colpi di una colluttazione, di una fucilazione protratta.
Al centro della scena vi si trovano un parallelepipedo nero e un microfono: nessuno è Carl, tutti sembrano essere Carl. Infine, quasi per partenogenesi da un bassorilievo di figure in ombra, Carl s’identifica, si afferma e compare e, trattenuto a forza, viene trascinato al centro della scena. La cassa nera diventa il tavolo di tortura sul quale Carl verrà interrogato da Tinker e verrà messo alla prova nel suo amore per Rod: “C’è un passaggio che attraversa verticalmente il corpo, una linea retta attraverso la quale può passare un oggetto, senza ucciderti subito” (Tinker).
La creazione è un processo corale, e corale si presenta la messa in scena, la sua complessità diluita da una progettazione collettiva e simbolica dello spazio, da un uso scenografico dei corpi. Il lavoro degli attori è lasciato libero, la regia interviene a correzione di ciò che sorge nell’ improvvisazione, agisce come una lima. “Carl tira fuori la lingua. Tinker prende un grosso paio di forbici e taglia la lingua a Carl. Carl scuote violentemente le braccia, la bocca aperta, piena di sangue. Nessun suono ne esce”.
Mi chiedo se è nel realismo iperbolico al quale viene costretta la scena e con cui vengono provocati l’atto registico e l’interpretazione degli attori, se è nella scarnificazione per elenco di azioni e per dialoghi incompleti e ineluttabilmente monchi, che può essere intravista un’arcaicità tragica in Sarah Kane, l’onestà della narrazione, la disperazione urlata, laddove i vuoti e i silenzi sono lo spazio che l’horror vacui di personaggi atomizzati vorrebbe riempire di un Dio inesistente che non prende più parola.
I pezzi della lingua mozzata di Carl (i palmi degli attori chiusi in una stretta che finge di trattenere qualcosa che potrebbe scappare e liberarsi come un pesce agonizzante) passano di bocca in bocca nel “coro” che assiste e si rende complice della tortura. Si avvicinano al microfono, emettono conati di suono. La violenza che annulla la parola e impedisce il dire (il nominare) ciò che si subisce. E’ il rapporto tra violenza e possibilità di (r)esistere attraverso il linguaggio già indagato da “Se questo è un uomo” di Primo Levi (il campus universitario è in Kane eco di un campo di concentramento), da Jean Cayrol (autore del testo di “Notte e Nebbia” di Resnais) in “Vivrò l’amore degli altri”, mentre l’elemento del potere evoca invece “La caduta degli dèi” di Luchino Visconti, il sadismo e la soggiogazione psicologica de “Il portiere di notte” di Liliana Cavani.
La richiesta “irrealizzabile” di amore di cui parla Koršunovas è in riferimento alla domanda, che ritorna in “Purificàti” di Kane (e in tanti altri prima di lei), sulla possibilità di incontro dell’altro al di fuori di una dimensione di violenza: “Tutto ciò che, all’ interno dell’animo e delle relazioni umane, sfugge all’imperio della forza è amato, ma amato dolorosamente, a causa dell’incombente pericolo di distruzione. (…) L’amarezza alberga sull’unica giusta causa di amarezza: la subordinazione dell’animo umano alla forza, ovvero, in fin dei conti, alla materia” (Simone Weil).
Rileggo il testo, osservo il lavoro, la prima filata in preparazione della restituzione aperta prevista a fine workshop.
Ci spostiamo nella biblioteca comunale di Avigliana, chiusa al pubblico e vuota. Gli attori provano in assenza del regista, seguendo le note e le indicazioni da lui lasciate. La narrazione e l’azione procedono per dimensione corale e solo a tratti alcuni personaggi si isolano per poi rifondersi in un magma che riempie di fisicità la scena. “Stiamo giocando al teatro povero” afferma Koršunovas, e la crudezza della rappresentazione non può nascondersi dietro alcun filtro scenografico.
Le musiche (“Love will tear us apart” dei Joy Division; “A new error”di Moderat) sono l’unico elemento di diluzione di un’aggressività scenica difficilmente evitabile. E’ questo sforzo rappresentativo, questa tensione che nasce nel tentativo di riprodurre il non-riproducibile, a generare stanchezza e fatica. Gli attori discutono tra loro “il come fare”, mentre al di là della vetrata della biblioteca, il fumo dei roghi dolosi che nel frattempo da giorni bruciano la Val Susa e addensano l’aria in un’irrespirabile coltre, restituisce una dimensione apocalittica che sembra allinearsi simbolicamente all’impossibilità di fuga da un testo claustrofobico come “Cleansed”.
E’ questa necessaria elaborazione simbolica dell’azione violenta narrata in “Purificàti” che archetipizza l’azione, che fa coincidere nei personaggi della Kane portato tragico e contemporaneo? “Il mito trasforma la storia in natura, la cristallizza” affermava Roland Barthes. Korsunovas sostiene invece che “Ciò che segna la distinzione tra l’uomo classico e l’uomo moderno è che l’uomo classico lotta contro le forze esterne – il fato, Dio; mentre la lotta dell’uomo moderno avviene all’interno, in se stesso, con le sue passioni, i suoi desideri, le sue aspirazioni”.
In alcune recensioni rivolte alla produzione lituana di “Cleansed” vengono citate come eco le riflessioni cinematografiche di “Amour” di Michael Haneke e di “Love” di Gaspar Noè, ma il pensiero va anche ad “Alps” e “The Lobster” di Yorgos Lanthimos, le cui storie camminano sulla sottile fessura di separazione tra il bene e il male, la vita e la morte, l’amore e la violenza: quelle dicotomie che, ricorda Koršunovas agli attori di Maestrale, ogni tecnica spirituale cerca di superare. Anche il teatro?
Eppure l’atto di tagliare una lingua o uno stupro potranno certo sembrare più veri in un film, ma il teatro, costretto nella contingenza dell’azione nuda, necessita di una riflessione ulteriore, un ragionamento di scavo. “Avete capito le regole del gioco. Ciascuna scena ha le sue regole. Se cerchi di portare le regole della vita dentro la scena il teatro non funziona. Bisogna scoprirle come nella fisica. La drammaturgia contemporanea per me è una drammaturgia che trova nuove leggi teatrali, nuovi principi. Sarah Kane è questo tipo di drammaturgia perché ci impone, più di altri testi a distanziarci dalla letterarietà, a prendere strade diverse” afferma Koršunovas.
Si conclude così un lavoro iniziato provocatoriamente con una domanda: “Cos’è l’amore per voi?”, domanda posta affinché l’eterogeneità delle definizioni aprisse l’analisi della complessità dei rapporti narrati in “Cleansed”. E’ nell’esplicitazione di cosa sia “amore” che si può allora indagare la violenza, la prevaricazione, quell’essere soggiogati dal volersi appropriare della materia che fa parte del sentimento amoroso (del desiderio e del sesso) così come dell’agire violenza sull’altro?
Non stranamente qualcuno degli attori, nel commentare la lettura del testo, lo ha definito “romantico”.
La violenza di “Cleansed” è il tentativo di affermazione di un lirismo messo a tacere, accennato solo in parte e molto brevemente anche nelle scelte registiche di Koršunovas.
Nel 1995 sul “The Guardian” il drammaturgo inglese Edward Bond scrisse in merito ad un altro lavoro di Sarah Kane, “Balsted”: “Balsted, io credo, viene dal centro della nostra umanità e dal nostro antico bisogno di teatro. Ecco cosa gli dà la sua strana, quasi allucinatoria autorevolezza. Non ci mostra le immagini con cui dovremo convivere se non riconsideriamo la nostra visione etica. Noi viviamo già quelle immagini – nel mondo, in cui le lancette dell’orologio sono la nascita e la morte, il mondo che è sempre là ma diventa la nostra realtà disumanizzata, solo quando cerchiamo di rendere più giusta la nostra vita quotidiana. Le immagini di Blasted sono antiche”.
Un immaginario antico riportato all’immaginario attuale. In questo margine di riattualizzazione garantito dalla scrittura di Sarah Kane pare dispiegarsi il metodo di lavoro con cui Koršunovas ha condotto il laboratorio di Maestrale e che, lui spiega, gli consente di lasciare che il lavoro si origini ogni volta come da una materia grezza nell’importanza di condurre gli attori a donarsi al processo creativo, che avrà ogni volta una struttura referenziale nuova e differente.
“Le immagini sono presagi e dobbiamo imparare ad interpretarle – afferma Edward Bond – Il teatro mescola immagini delle cose che dobbiamo accettare: la nostra mortalità e la nostra debolezza con immagini di ciò che dobbiamo cambiare”. E l’interpretazione delle immagini di violenza narrate in “Cleansed” e la ricerca di un linguaggio per ridirle sembrano davvero essere stata la messa in gioco – collettiva prima ancora che individuale – dei giorni trascorsi “Intorno a Sarah Kane”.