Giro di boa per il XXIV Festival delle Colline Torinesi, giunto ieri a metà del proprio percorso (o per meglio dire, flusso) teatrale. Una kermesse, quella curata dal 1996 da Sergio Ariotti e Isabella Lagattolla, che riconferma la consueta attenzione dei due direttori per la creazione contemporanea: si possono infatti scorgere all’interno del cartellone interessanti ed esotiche proposte performative, altrove faticosamente rintracciabili. Fra i vari allestimenti in scena nel corso della prima settimana e mezzo di festival se ne ravvisano in particolar modo tre fra loro legati da un comune sentire, da un comune interrogarsi attorno alla questione dell’umano archetipo (classico o filmico che sia).
In primis, “Mater Dei”, ultima fatica (in prima nazionale) della Piccola Compagnia della Magnolia, su testo inedito – scientemente affidato dall’autore al duo Cerruti/Giglio – di Massimo Sgorbani. L’opera «libera variante sul tema del mito di Giove ed Europa, ha come protagonisti – recita il programma di sala – una madre e un figlio collocati in un tempo e in un luogo immaginari».
Il pubblico convenuto presso il Cubo Teatro di Torino entra in sala scorgendo dinanzi a sé, nella penombra, un Davide Giglio au naturel, nelle vesti (si fa per dire) di un semi-dio, di un’entità superna e monca che vaga ossessivamente lungo un sentiero rettilineo, con i piedi completamente immersi nell’acquitrino.
Particolarmente suggestivo è lo spazio d’azione (curato da Lucio Diana e Domenico De Maio), che ricorda una sorta di antica fonte battesimale d’impianto quadrangolare, al cui centro si staglia una pedana lignea, a sua volta sovrastata dal trono di Giorgia Cerruti, la Mater bradamantesca che appare fieramente in scena brandendo una lama (infilzata poi nello schienale dello scranno); il tutto mentre il figlioletto disabile – colto nel bel mezzo di una simbolica vestizione – sguazza impaurito nella piscina, di un bianco impuro e sintetico. Lui indossa abiti candidi, da iperuranico fornaio; lei sembra invece un’amazzone mai stata sposa: l’azione drammatica si situa (direbbe Beckett) “a cavallo di una tomba”, in uno spazio-tempo füsslianamente sospeso, carico di angosciosa attesa.
L’assolo della protagonista, accompagnato dal mugghiare afasico e pre-verbale del figlio, precede l’arrivo off-screen di una non meglio identificata entità atta a prelevare quello scherzo della natura, a «correggerne l’errore».
La parola sgorbaniana, tagliente e morbosa, lacera profondamente l’astante fin nelle viscere, insistendo su alcuni topoi del barocchismo post-moderno: il corpo abusato, la maternità abnorme, la disfunzionalità dei rapporti, l’ossessione sessuale. Un flusso comunicativo «laico, erotico, scandaloso, ipnotico, che oscilla tra la paura di regredire nel Caos e l’affermazione del Mito».
Una delle sequenze più incisive è il resoconto dello stupro di Europa e della conseguente gravidanza, iperbolica e paradossale, dalla quale sarebbero discesi ben tredici figli: dodici divi normodotati e un gracile morticino, di stirpe debole, umana, arcana. La scelta di occultarlo e proteggerlo, operata dalla madre, risulta francamente esecrabile (sempre che abbia una qualche utilità formulare un giudizio morale o, peggio ancora, moralistico sul contenuto mitologico), giacché si traduce in una forma di sadica proiezione, priva di effettiva protezione nei confronti del menomato.
Tra strisciare di corpi e sguazzare di chiome, Giorgia Cerruti offre alla jacoponica Madonna la sua pregevole grinta ferina, talvolta perfino esacerbata se si considera la già lancinante aggressività del testo. Bella prova anche per Davide Giglio che, compresso nella maschera confezionata da Michele Guaschino, si contorce per gran parte dell’opera in luciferini e spersi spasmi facciali.
Dai tori stupratori alle sfingi persecutrici il passo è assai breve, anche se a farlo – questo passo – è un claudicante Edipo di Andria (Michele Sinisi), che al posto della gamba si vede impiantata nottetempo da un fido guardiano apuloglotta (Federico Biancalani) un’appendice metallica da poliomielitico (letteralmente infatti Οἰδίπους è “colui dai piedi gonfi”).
Quella firmata da Elsinor per il Festival delle Colline è – si direbbe, con snobismo forestiero – una produzione site-specific, ospitata nell’insolita cornice del Palazzo degli Istituti Anatomici di corso Massimo 52.
La politeia gianduiotta si sistema fra i cantucci di una cavea lignea, riproduzione microscopica del theatron di Siracusa, aspettandosi comprensibilmente una qualche lezioncina di vago sapore lombrosiano, complici anche la lavagna accademica che fa da sfondo e il bignami di teatralità greca dispensato dalla voce pre-registrata.
Effettivamente Sinisi, una lezione al pubblico, la dà: ed è una lezione sulla bellezza compositiva. Merita a tal proposito un accenno, sia pur rapido, l’ingegnoso progetto scenografico curato da Biancalani: l’angusta orchestra si trasforma per l’occasione in gabbiotto, sormontato da tre svettanti pareti in nylon, usate a mo’ di protezione; sulla scena poi si depositano oggetti prelevati da una bancarella d’età post-industriale: un martello (che serve per abbattere cumuli di torrone e polistirolo), una scala (sostegno d’impiccagione), un computer, un alto schermo su cui scorrono brechtiane scritte al led e alcune taniche contenenti sordidi umori: flegma, sangue e bile, forse.
Il mito di Edipo diventa così un pretesto per esplorare, fisicamente ed intellettualmente, la condizione del capro espiatorio, esposto malgré lui alle più terribili vessazioni anatomiche, sebbene si rifugga (nonostante il lieve tocco splatter dell’allestimento) qualsiasi sadica ostentazione da macelleria teatrale.
Gli spunti offerti da questo spettacolo, così calibrato e anfibologico, appaiono comunque molteplici, pertanto non tutti ugualmente espliciti e non tutti immediatamente processabili.
Nel complesso il corpo di Sinisi, in un progredire di spoliazioni (fino alla completa nudità dell’attore), è l’arena sulla quale si combatte un agone tragico.
Il prologo si apre con un anziano dagli occhi tumefatti (prefigurazione dell’Edipo a Colono) che sosta già in scena, di spalle, mentre il pubblico fa il proprio ingresso dal parodos destro. Il martellante audio aerospaziale annuncia con cadenza intermittente «le istruzioni necessarie per il viaggio, indirizzando la lettura dei segni». Gradualmente, il protagonista si libera da tutto ciò che indossa, inaugurando un processo à rebours finalizzato a disvelare quanto lo sguardo rifiuta di vedere (“Farò luce!” è infatti il mantra inquisitorio ribadito da Edipo). Frattanto, «un uomo in camice (Tiresia) l’aiuterà a liberarsi con più comodità dei segni del tempo, di tutto ciò che ha scoperto, del peso della conoscenza».
Quella di Edipo/Sinisi è un’ecdisi serpentina, una muta di pelli e di volti che – come nelle più pagane viae crucis – conduce il protagonista dalle caviglie forate (abbandonato alle bestie a testa in giù e retto soltanto da una cinghia metallica) al sacrifizio finale, sia pur dai tratti ironici. Nell’epilogo infatti il protagonista viene cosparso di colla e peli posticci, incarnando il perfetto pharmakos della tradizione ellenica: il reietto (o l’eletto) che – secondo gli studi di Burkert e Girard – veniva precipitato giù da una rupe (o espulso dal consesso sociale) per conquistare una catarsi collettiva. Nel procedere dei vari stasimi ed episodi, tra un meh e l’altro, la (ahinoi) troppo rapida performance sceglie di non attestarsi mai su un piano di magniloquente calamità, sebbene l’argomento potrebbe richiederlo; si degrada piuttosto in un impasto grottesco, giustapponendo gag e lazzi satireschi, primo fra tutti la chiamata live alla signora Sinisi, Giocasta virtuale del tessuto drammaturgico, brillantemente riscritto grazie alla consulenza di Francesco M. Asselta.
Dulcis in fundo, Deflorian/Tagliarini. Va detto innanzitutto che i miti non si celano soltanto sotto le patine fangose, bensì anche fra le spire delle bobine cinematografiche: è così che Daria Deflorian e Antonio Tagliarini, accompagnati in scena da un ottimo Francesco Alberici, abbandonano Schliemann e Micene trasferendosi in un onirico “deserto rosso” della psiche.
La performance – progetto collaterale allo spettacolo “Quasi niente“, in scena anche alle Colline ma di cui avevamo già parlato su queste pagine lo scorso autunno – approda nel capoluogo piemontese proponendosi come una deliziosa entrée, una nota a margine, una glossa, paradossalmente più stimolante dello stesso corpo-testo.
“Scavi” – questo l’emblematico titolo scelto per l’operazione andata in scena alla Fondazione Merz – è la condivisione di un pensiero inespresso, la visualizzazione di un racconto (simile a quello fatto da Giuliana al figlio nel film di Antonioni), un racconto nel quale chiunque può riconoscersi, pur conservando una forte traccia autobiografica (non configurandosi pertanto come una narrazione adesposta). «È l’incontro con il processo creativo, un materiale vasto, fitto, grezzo, del quale l’opera è solo la punta dell’iceberg».
Aedi e rapsodi – o forse archeologi – di questa “favola bella”, che aiuta a riflettere e a rifletterci, sono tre attori che si aggirano fra le sedute scompostamente dislocate all’interno della sala, che fungono ad un tempo da spazio scenico e platea. Il primo atto di questa confessione pubblica si apre sulle note di “Mi fanno male i capelli”, battuta di Monica Vitti in “Deserto rosso”, primo film a colori di Michelangelo Antonioni (riproposto peraltro in retrospettiva al Cinema Massimo), una frase cavata da una poesia di Amelia Rosselli.
Di qui l’abbrivio per esplorare il difficile rapporto di Daria Deflorian con i capelli, che cela in sé ulteriori archetipi della femminilità (l’età, la maternità…); Antonio Tagliarini, da parte sua, racconta frammenti di una solitudine, di un divorzio che è innanzitutto il suo, ma che è poi anche quello di Antonioni e della Vitti ai tempi del Leone d’Oro a Venezia (vinto dal regista nel 1964).
Piacevole sorpresa di questo allestimento, che come una valanga accumula pensieri e notazioni interiori fino a raggiungere i recessi più oscuri dell’animo, è Francesco Alberici, classe 1988, il quale – dismessi i “cinici” panni che lo hanno reso famoso sul web – si dona all’uditorio, rivelando angosce e nevrosi private. Una terapia di gruppo, questi Scavi, che ci induce quantomeno a prestare più attenzione, la prossima volta che andremo a teatro, al modo in cui stiamo seduti.
MATER DEI
testo inedito di Massimo Sgorbani
traduzione francese Frédéric Sicamois
regia, spazio scenico e costumi Giorgia Cerruti
con Giorgia Cerruti e Davide Giglio
assistente alla creazione Fabrycja Gariglio
musiche originali e sound design Guglielmo Diana
style e visual concept Lucio Diana
realizzazione scenografia Domenico De Maio
maschera Michele Guaschino
realizzazione costumi Roberta Vacchetta
produzione Piccola Compagnia della Magnolia con il sostegno di Armunia, e di Residenza I.DRA. e Teatro Akropolis nell’ambito di CURA # Residenze Interregionali 2018 in collaborazione con Festival delle Colline Torinesi – Torino Creazione Contemporanea
durata: 1h 20′
applausi del pubblico: 3′ 43”
Visto a Torino, Cubo Teatro, il 4 giugno 2019
prima nazionale
SCAVI
di Francesco Alberici, Daria Deflorian e Antonio Tagliarini
regia Daria Deflorian e Antonio Tagliarini
un progetto di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini
interpretato da Francesco Alberici, Daria Deflorian e Antonio Tagliarini
consulenza letteraria di Morena Campani
accompagnamento e distribuzione internazionale Francesca Corona
organizzazione di Anna Damiani
foto di Elizabeth Carecchio
una coproduzione A.D. e Festival di Santarcangelo
in collaborazione con l’Istituto Italiano di Cultura di Parigi
residenza produttiva Carrozzerie | n.o.t Roma
durata: 60′
applausi del pubblico: 4′ 03”
Visto a Torino, Fondazione Merz, il 6 giugno 2019
EDIPO. IL CORPO TRAGICO
di Sofocle
regia Michele Sinisi
con Michele Sinisi e Federico Biancalani
collaborazione alla drammaturgia Francesco M. Asselta
scene di Federico Biancalani
prodotto da Elsinor – Festival delle Colline Torinesi / TPE
sostegno alla produzione MAT, laboratorio urbano, Terlizzi (BA)
progetto FARSA
durata: 55′
applausi del pubblico: 4′ 12”
Visto a Torino, Palazzo degli Istituti Anatomici, il 11 giugno 2019
prima nazionale