La Maison Mère di Phia Mènard travolge Contemporanea 2019

Contes Immoraux - Partie 1: Maison Mère (photo: Jean-Luc Beaujault)
Contes Immoraux - Partie 1: Maison Mère (photo: Jean-Luc Beaujault)

Prosegue lungo l’asse delle precedenti edizioni la riflessione del festival Contemporanea di Prato, in un’edizione vivace e ricca di spunti. E nel cercare di fare luce sulla complessità del nostro tempo sceglie di affidarsi soprattutto “al pensiero delle donne, alla loro visione politica del mondo”, secondo le parole del direttore artistico Edoardo Donatini.
Tra le proposte a cui abbiamo assistito parliamo di “Contes Immoraux | Parte 1: Maison Mère”, andato in scena al teatro Fabbricone e che vede come unica protagonista in scena Phia Mènard.
Un progetto commissionato da Documenta 14 di Kassel (mostra d’arte contemporanea a cadenza quinquennale) nel 2017, che aveva come tema “Imparare da Atene/Per un parlamento del corpo”, e di cui la Mènard firma drammaturgia e regia insieme a Jean-Luc Beaujault.

Con un colpo d’ala potremmo riassumere in pochissimi caratteri (spazi inclusi) i circa novanta minuti della messinscena in questa guisa: un’amazzone/virago – fuoriuscita da un immaginario punk post apocalittico – passa un’ora a costruire un Partenone di cartone delle dimensioni di una casetta da giardino.
Terminato l’assemblaggio, in scena comincia a piovere. La performer osserva in disparte la struttura inzupparsi e collassare, mentre una fitta nebbia pervade la scena. Fine.

Questo potrebbe dire in sintesi, suppongo, chi si è sinceramente annoiato. E tra questi, fino ai primi sessanta minuti, c’ero pure io. E certo non ero il solo.
Ma si dà il caso che, dal momento in cui l’acqua comincia a cadere e a poco a poco un fumo bianco, che “scroscia” dall’alto quasi fosse una cascata, invade la scena, questa “apocalisse per acqua” – rubando le parole da una lirica del grande poeta Valentino Zeichen – delinea in chi guarda un succedersi di stati d’animo, visioni ed epifanie così potenti da togliere quasi il fiato, tanto lasciano esterrefatti, sorprendono, impauriscono e risvegliano ataviche connessioni con il nostro inconscio e col nostro presente.

È infatti proprio nel momento in cui la pioggia crepuscolare fitta fitta scatena, col suo “gutta cavat lapidem”, l’implodere della struttura, che l’apocalisse si manifesta, accompagnata dalle volute di fumo che, come soffiate dalle nari di un gigantesco drago invisibile, finiscono per imporre sulla scena e tra gli spettatori una nebbia soffocante agli occhi, e a malapena si riesce a distinguere ancora la metodica ed instancabile azione perpetrata dall’acqua. Il tutto mentre Phia Menard, come una sirenetta punk di Copenaghen o forse un’indifferente Atena, se ne sta in disparte, su una piccola isola di cartoni scartati a godersi lo spettacolo e ad osservare le nostre reazioni.

Così il premio in regalo allo spettatore ripaga di tutta l’attesa trascorsa nell’assistere all’assemblaggio Ikea dello scatolone. E quel Partenone – gabbia, carcere, edificio primordiale, oikos – che implode sotto il peso letale dell’acqua apre a rimandi che sul momento sembrano tutti lì chiari ed evidenti, ed invece lasciano poi campo a riflessioni che si accavallano una sull’altra, togliendoci il conforto di una consolatoria e mera, ma soprattutto unica, comprensione. E ciò dimostra la forza di questo lavoro.

Una nuvola carica di pioggia e distruzione incombe sul Partenone. Una nube che incombe sull’Europa intera e ci accieca e ci rende dimentichi di valori fondamentali di un’umanità che va scemando giorno dopo giorno a favore di cinismo, interessi personali esterni alla polis e culto del denaro.
Crolla il Partenone, simbolo di un eurocentrismo superato dalla storia. Crolla il Partenone, simbolo di una Ue che si frantuma giorno dopo giorno tra sovranismi e Brexit. Crolla la casa, archetipo di protezione e sicurezza, solidità e riparo, così come tutto crolla sotto il peso del tempo che ogni cosa ricopre, tutto cancella, e la fatica dell’uomo nel costruire qualcosa – un futuro, una casa, un legame, uno spettacolo, come in questo caso – niente può contro di esso, contro il fatal destino, al quale si può solo assistere in disparte, come fa la Mènard in scena, divinità indifferente alle sorti dell’umanità. Ma ulteriore rimando, come si legge nella presentazione del lavoro, è anche alla guerra ed al piano Marshall che seguì il secondo conflitto mondiale in Europa, a città rase al suolo sotto i bombardamenti, come ci ricordano i rumori che echeggiano in scena. Il nonno paterno della protagonista fu infatti una delle vittime del terribile bombardamento di Nantes nel 1943.
Ma tutto ciò non è sufficiente per dare di conto della stratificata e complessa realtà di uno spettacolo (in cui la parola è totalmente assente) quanto mai efficace, profondo, riuscito, polisemico nella sua essenzialità.

Contes Immoraux – Partie 1: Maison Mère
drammaturgia e direzione Phia Mènard e Jean-Luc Beaujault
scenografie Phia Mènard
performance Phia Mènard
musiche e spazio sonoro Ivan Roussel
direttore di scena Pierre Blanchet e Rodolphe Thibaud
costume Fabrice Ilia Leroy
direttore tecnico Olivier Gicquiaud
co-direzione, produzione e amministrazione Claire Massonnet
assistente di produzione Clarisse Mèrot
La compagnia Non Nova – Phia Mènard è sovvenzionata dal Ministero della Cultura e della Comunicazione Francese – DRAC des Pays de la Loire, Nantes City Council,the Conseil Départemental de Loire- Atlantique, l’Istituto Francese e la Fondazione BNP Paribas .
La compagnia Non Nova ha sede a Nantes
La compagnia Non Nova / Phia Ménard è attualmente artista associato a Malraux scène nationale Chambery Savoie, and the «TNB, Centre Européen Théâtral et Chorégraphique de Rennes».
Il progetto “Mother House” ha ricevuto lo speciale supporto dell’Istituto Francese e della città di Nantes

durata: 1 h 22’’
applausi del pubblico: 3’

Visto a Prato, Teatro Fabbricone, il 27 settembre 2019

 

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