A Castiglioncello abbiamo assistito al Marat di Maurizio Lupinelli con la cura di Renato Bandoli
Una partitella di basket commentata da un banditore di circo dalla voce amplificata: si apre così il “Marat” di Maurizio Lupinelli. Con una partita accompagnata dal rumore assordante di tamburi e sorvegliata da un cordone di poliziotti schierati a formare un’illusoria quarta parete, un confine tra la scena e il pubblico.
Anche se di confine – scopriremo – non si tratterà, perché sarà una festa per tutti.
Un dato balza subito, prepotente, allo sguardo: il “Marat-Sade”, nelle mani di questo autore-attore-regista e in quelle dei suoi attori, è assolutamente contemporaneo. Tanto che ognuno può proiettare sulla scena il proprio personale vissuto, carico di ricordi ed emozioni.
Lupinelli ha fatto esplodere il testo in mille schegge per poi ricucire, con alcune, una drammaturgia originale sul corpo dei suoi attori/non-attori, tessendo e mescolando insieme le peculiarità espressive di ognuno, in un lavoro di alto contenuto poetico.
Questo “Marat” è orgia di corpi, dionisiaco ritorno al senso primigenio del teatro, festa della collettività e momento di incontro sociale e politico. Così, la luce utilizzata è un riflesso che sporca la scena per scolpire i corpi, donando a questi stessi corpi tutta l’efferatezza, la violenza del gesto necessario.
Nell’organicità e nel perfetto funzionamento del teatro delle masse è difficile non riconoscere l’impronta del Teatro delle Albe di Ravenna, gruppo dal quale Lupinelli proviene e con il quale ha fondato la Non-scuola (“Non recitare, fai” sostiene Thomas Richards, allievo di Jerzy Grotowski).
Il palcoscenico è luogo democratico, che mette tutti sullo stesso piano, tutti nelle stesse difficoltà. Chi vi sta a suo agio è chi ha qualcosa da dire, chi ha un “rumore” da mostrare.
Quello che qui si vede è teatro che, con la sua capacità di integrare svariate forme di espressività, ammette finalmente a corte, su un piano di parità, chi troppe volte ha dovuto ingiustamente sentirsene escluso. E non c’è nessuna forma di pietismo o ghettizzazione, poiché la dignità in scena dei “diversamente abili” è pari a quella dei cosiddetti “normodotati”. E anzi, alcune particolari difficoltà donano a queste persone una peculiarità di espressione e un’intensità, un “rumore”, che alcuni attori cercano invano per tutta la vita.
Il teatro è perturbante, deve muovere le acque, deve far paura, deve dire ciò che non si può dire, deve mostrare la verità, deve avere l’urgenza della rivelazione. Se non fa questo, allora non è teatro.
Ecco che in questo continuo rovesciamento di piani dalla realtà alla finzione e viceversa, si assiste al coro appassionato di 60 persone in scena che agiscono la loro libertà e la mostrano con piglio ironico e sorriso crudele. Non c’è un solo Marat. La rivoluzione e la libertà si manifestano nella libertà di essere e nella dignità espressiva di ogni piccolo grande attore sulla scena.
Nel convegno “Verso un teatro degli esseri” del luglio 2000, Renato Bandoli affermò l’importanza “[…] soprattutto dal punto di vista poetico e teatrale, di porsi contro quel moralismo ipocrita, contro una certa retorica, quella che ci fa venire la lacrimuccia, appunto, per il disabile, per il carcerato, per il nuovo povero, per il rom…”. E infatti questo è un teatro per chi di lacrimucce non ne può più e non ne ha più, a favore del coraggio e della coerenza di osservare la realtà a testa alta, con sguardo limpido e attento.
Non c’è presunzione in questo spettacolo, né registica, né attoriale e tantomeno terapeutica. Ed è proprio questo a renderlo, se possibile, ancora più autentico, più sincero, onesto. Ancora più teatro.
Mi piace citare l’esclamazione gioiosa di Lupinelli a fine spettacolo, nella festa generale: ”Questo è il rumore, cazzo!”.
Da vedere e ricordare.
MARAT
drammaturgia e regia: Maurizio Lupinelli
con la cura di Renato Bandoli
durata: 50′
applausi del pubblico: 5′
Visto a Castiglioncello (LI), Castello Pasquini, il 14 marzo 2009