Il sipario ancora calato. Le maschere indossano le giacche e, veloci, imbracciano le pentole bollenti, attraversano le file della platea tracciando scie di fumo odoroso come fosse incenso. Compiono due, tre giri a testa, l’odore è sempre più forte. Si sente anche da fuori; il pubblico in coda lo riconosce distintamente, ma non sa dargli un nome: non è un odore da teatro, è qualcosa di casalingo, di familiare. E’ odore di ragù.
Succedeva prima di ogni rappresentazione di “Sabato, domenica e lunedì” di Eduardo De Filippo. Tutte le sere, pentole alla mano, il teatro si impregnava, come se il ragù fosse un personaggio in più, anzi, il protagonista.
Anche “Maratona di New York” ha un odore. È quello delle foglie autunnali che ricoprono il palco. E ha un suono molto preciso: quello delle scarpe da ginnastica che sbattono al ritmo della corsa.
Su queste due tracce costanti il regista Maurizio Pepe costruisce il rapporto tra i protagonisti, Mario e Steve (Marcello Paesano ed Edoardo Purgatori).
I segni sono pochi e chiari: tuta professionale rossa per Steve, tuta da casa azzurrognola per Mario. Caratteri diversi ma complementari, e approcci differenti alla corsa e alla vita, esplicitati gradualmente con l’avanzare delle miglia.
Ci vuole ritmo per correre questa maratona, nelle gambe e nella recitazione. Momenti densi, riempiti dal crepitio delle foglie e dai dialoghi, si alternano a momenti più riflessivi, di defaticamento. La vicenda scorre come una serie di istantanee, gli attori mantengono posizioni simili, in un’eterna ripartenza dai posti di blocco, alcuni discorsi si interrompono, altri vengono ripresi dopo anni, nel tempo di un allenamento dilatato e ciclico.
La corsa è uno sport solitario; la maratona è una sfida contro i propri limiti personali. Ma nel testo di Edoardo Erba, e nelle intenzioni del regista, diventa un’occasione per aprirsi, per fare emergere i veri noi stessi, tra gli affanni e la fatica, finalmente spogliati da costruzioni esterne e armature, che cadono a pezzi passo dopo passo.
Gli scambi di battute, sempre meno superficiali, smettono di introdurre i personaggi e cominciano a centrarsi attorno al nucleo segreto della vicenda, che verrà rivelato solo nel finale.
I protagonisti, incastonati su percorsi paralleli come binari, iniziano a deragliare l’uno addosso all’altro, fisicamente e nel dialogo, come per consolarsi, fino a perdere del tutto il ritmo della corsa, l’esteriorità, che procede sgangherata e affannante, per lasciare emergere la verità del loro rapporto. La domanda “Ma com’è che siamo diventati amici io e te?” acquista ogni volta una risposta più forte, intensificando la loro relazione col passare dei chilometri: amici di corsa, amici di una vita, fratelli di sangue.
Perché correre? Mario e Steve si danno tante risposte. Come i loro personaggi, sempre in movimento, anche i punti di vista continuano ad evolversi, senza potersi fermare, senza definire nulla: il loro rapporto con la società, con la religione, col passato e il futuro. Perché durante l’allenamento non si può prendere fiato, bisogna andare avanti e superare il limite, un centimetro alla volta, fino a tagliare il traguardo, fino all’applauso.
MARATONA DI NEW YORK
di Edoardo Erba
regia Maurizio Pepe
con Edoardo Purgatori e Marcello Paesano
produzione: THE SHAPE OF WATER / INTRO
applausi del pubblico: 1’ 16’’
Visto a Roma, Teatro Argot Studio, il 10 dicembre 2016