Dopo aver compiuto, colloquiando con i drammaturghi Davide Carnevali, Emanuele Aldrovandi, Emma Dante, Serena Sinigaglia e Michele Santeramo, un viaggio per cercare di approfondire la grave situazione culturale e sociale venutasi a creare con la diffusione del Coronavirus, proseguiamo il nostro percorso intervistando il regista Marco Lorenzi, della compagnia torinese Il Mulino di Amleto.
Nel frattempo, pochi giorni fa, per fronteggiare la situazione di emergenza del comparto dello spettacolo dal vivo, è uscito l’avviso pubblico del Mibact per il Fondo Emergenza da 20 milioni di euro per il sostegno alle realtà performative (danza, teatro, musica e circo) che non hanno ricevuto contributi del FUS nel 2019: ricordiamo che le domande andranno inviate entro il 25 maggio.
Il Mulino di Amleto nasce nel 2009 da giovani attori diplomati alla Scuola del Teatro Stabile di Torino e si impone all’attenzione di pubblico e critica rileggendo, sempre con la regia di Lorenzi, alcuni classici teatrali: da “Gli Innamorati” di Goldoni a “L’albergo del libero scambio” da Feydeau con la riscrittura di Davide Carnevali, sino ai più recenti “Misantropo” di Molière e “Platonov” di Cechov.
Il Mulino di Amleto produce anche uno spettacolo di teatro ragazzi, “Giardinetti”, e il testo contemporaneo di Magdalena Barile “Senza famiglia”. Per la rassegna estiva “Il Prato inglese” dello Stabile di Torino Lorenzi dirige poi “Romeo e Giulietta” nel 2018 e “Otello” nel 2019. Negli ultimi due anni la compagnia sta organizzando un progetto molto articolato intorno al drammaturgo norvegese Henrik Ibsen.
Cosa potremmo imparare dalla situazione che stiamo vivendo?
All’inizio di questa strana vicenda che ci ha “aggredito”, pensavo che ci saremmo portati a casa una maggiore consapevolezza del nostro bisogno di relazione con l’Altro. Invece mi ero sbagliato. Infatti, ora, ho la sensazione che possa esserci l’opportunità di una scoperta più grande e preziosa: sto imparando che non sono le parole quelle che ci mancano. Di parole ne stiamo usando e – forse – abusando pure troppo. C’è un super utilizzo di quel surrogato di socialità che sono – appunto – i social, e grazie all’apporto prezioso di telefoni e altri supporti, riusciamo a usare tutte le parole che vogliamo con gli altri. Quello che davvero ci manca è quella dimensione di incontro silenzioso, che va oltre il logos, di contatto metalinguistico, dato da quella vibrazione misteriosa della presenza fisica dell’altro. Ecco un grande insegnamento che questa situazione potrebbe lasciarci: il bisogno della presenza dell’Altro mi determina, aiuta a capirmi, mi completa. Non è una questione di parole. E’ una questione di corpi, di sguardi, di sensazioni…
Tre parole che hanno cambiato di significato in questo periodo?
Ironicamente ti direi “positivo” e “positività”. Poi anche la parola “tempo”, o meglio il mio rapporto con la parola “tempo”. E per finire qualcosa di profondamente personale: la parola “primavera”. Mi ha toccato molto questa primavera che è arrivata senza persone nelle strade. Le città deserte, le attività umane ferme, questo tempo dell’uomo sospeso, ma il tempo della natura no, è andato avanti come se nulla fosse. E mentre eravamo tappati in casa, il tempo è cambiato, il cielo si è rischiarato, gli alberi sono fioriti (anche i nostri fiori in balcone) e i profumi sono cambiati. Ti dico, con ironia e con un sorriso, che mi sono accorto di quanto siamo piccoli, fragili e ininfluenti!
Cosa ne pensi di un tuo spettacolo proposto in streaming?
Personalmente penso che la possibilità di un nostro spettacolo in streaming non vada frainteso con il concetto di Teatro. Infatti, questo strumento che abbiamo a disposizione e sul quale, ovviamente, noi artisti ci stiamo cominciando a interrogare, ha a che vedere piuttosto con la dimensione della Memoria. Aiuta noi, aiuta gli spettatori, e aiuta chi ama il teatro, a prendersi cura di una Nostalgia. Intendo una nostalgia per quello che il teatro veramente è. Ovvero un rito vivo, collettivo, comunitario, fatto insieme e non individualmente attraverso uno schermo. Ci aiuta a ricordare quanto questo rito ci è indispensabile, e a nutrire la nostra voglia di ritornarci quando ne avremo la possibilità. Nostalgia appunto! Quindi, è utile in questo momento.
Quali misure auspicheresti per la tua compagnia per aiutarla dopo questa emergenza?
Direi che uno degli effetti più evidenti di questa emergenza è stato quello di contribuire a rendere manifesta la fragilità e l’insostenibilità di un sistema che era già in crisi prima dell’arrivo del virus. Guardando la situazione in modo pro-attivo, ti direi che l’unica strada sbagliata che possiamo imboccare è quella della “restaurazione” di un panorama preesistente.
Se invece cogliamo questa emergenza per riflettere e capire che, se continuiamo a pensare il teatro usando un vocabolario produttivo-consumistico, non andremo da nessuna parte, allora c’è una speranza. Esiste un’alternativa, esiste la possibilità per tornare a parlare di ricerca e creatività e non solo di produttività, di arte, e non solo di numeri. Mi spaventa sempre sentir parlare di finanziamenti da parte dei privati e di “bisogni del pubblico”, perché questo è un vocabolario da marketing, da aziende che producono automobili. Questi sono gli errori del passato. Il teatro ha bisogno del finanziamento pubblico e di un FUS che non si occupi solo dell’emergenza, ma che poi continui nel tempo ad assicurare queste misure “straordinarie” anche in tempi ordinari. Sono certo che questo permetterà agli artisti di tornare a rischiare, inventare, creare, sbagliare e amare!
Immagina in poche righe un Amleto contemporaneo che deve combattere non con lo zio ma con il Coronavirus.
HAMLET-19
PARTE PRIMA.
Londra 28 ottobre, un anno qualsiasi della terza decade del terzo millennio..
Presso il reparto di terapia intensiva di un ospedale londinese, Horace, uno studente di filosofia di Cambridge, si risveglia dallo stato di coma nel quale versava dopo un incidente stradale, e si scopre nudo e abbandonato in un ospedale deserto e in rovina. Dopo essersi rifocillato, lascia il nosocomio e scopre uno scenario imprevedibile e sconvolgente: le strade di Londra sono completamente vuote e piene dei segni d’una evacuazione di massa. Gli appartamenti abbandonati, i negozi hanno le serrande abbassate; a tratti sono visibili segni di scasso e rapina. Tutto è lasciato a se stesso, in un silenzio e in una sospensione irreale.
Horace, incapace di capire cosa sia accaduto intorno a lui, nell’incertezza di non essersi ancora risvegliato da un sogno, afferra il telefono cellulare che aveva trovato affianco al suo letto di ospedale e comincia a chiamare i numeri della sua rubrica.
Dalla madre alla fidanzata, dai suoi amici alla sua amata sorella: nessuno risponde.
Nessuno.
Al tramonto Horace viene attirato da uno strano e penetrante odore che proviene da dentro Regent’s Park. Horace si addentra dentro il grande parco londinese e lì, scopre cataste di individui morti abbandonati in migliaia di fosse comuni. Centinai di migliaia di corpi morti, abbandonati e senza sepoltura. Horace non ha ancora avuto il tempo di riprendersi da questa visione che, da dietro una di queste fosse comuni, degli animali scappati dal vicino zoo abbandonato lo assalgono. Prima che riescano a prenderlo, Horace riesce ad entrare dentro un teatro abbandonato e sbarrarsi dentro.
Comincia a vagare per il teatro. Un tempo, un luogo come questo, era un luogo pieno di vita e di persone tutte le sere. Ora, la platea, il foyer, il palcoscenico, i camerini, mostrano i segni di inattività prolungata e di vuoto. Ma proprio in quel luogo, Horace, incontra il primo essere umano vivo. Nel teatro abbandonato, Horace, incontra Ham-let, un medico cinese che molto tempo prima di lui si è rifugiato in quel teatro e che racconta ad Horace la sua storia…
PARTE SECONDA.
La storia di Ham: Un flashback.
La seconda parte è ambientata un anno e mezzo prima, circa, in Cina.
Ham è un medico cinese.
Ha 34 anni. E’ specialista oculista. E la sua storia è intrecciata a quella di un virus misterioso che da mesi sta infettando tutto il mondo.
Poco più di un anno prima, nell’ospedale dove lavorava nel suo paese natale, aveva notato sette casi di un virus sconosciuto. Aveva lanciato l’allarme presso il primario del suo ospedale.
Ma rimase inascoltato.
Ham aveva tentato invano di avvertire i colleghi, di condividere l’allarme che quei casi sospetti gli avevano suscitato, ma le autorità locali per tutta risposta lo invitarono a non insistere.
Purtroppo, però, gli strani casi di contagio presso il suo ospedale non si fermarono. E un mese dopo, in un sogno, comparve ad Ham lo spettro del primo paziente contagiato che non era riuscito a salvare.
Ham, allora, in una riunione tra colleghi ripropose la sua storia, avvertendoli del pericolo e suggerendo di adottare le protezioni necessarie contro il contagio. Ma fu tradito da due di essi e quattro giorni dopo Ham fu convocato nell’Ufficio di Sicurezza pubblica, dove gli fu chiesto di firmare una lettera in cui ammetteva di «aver affermato il falso» e di aver creato «grave disturbo all’ordine sociale».
Ham si rifiutò.
Tutto questo avveniva a ridosso dei grandi festeggiamenti di massa per il Capodanno lunare.
Il risultato fu che dalla stampa e dalle autorità pubbliche venne diffuso un comunicato che bollava Ham come pazzo, come un irresponsabile, come un millantatore e un falso medico. La madre di Ham gli chiese di tornare sui suoi passi, di negare la sua posizione e riconoscere che le sue erano tutte fantasie. Ham, sopraffatto da un senso di impotenza e solitudine, decise di affidare ad un messaggio pubblico su internet la sua storia, la sua verità, e il peso che si portava dentro. Questa fu la goccia che fece traboccare il vaso. Le autorità nazionali ordinarono l’arresto per procurato allarme, accusandolo di aver inventato qualcosa che non esisteva per vanità personale, per ambizione e per odio verso i suoi superiori.
Ma ormai era troppo tardi.
L’epidemia era dilagata.
Stava sfuggendo dal controllo del governo centrale e ormai stava dilagando in tutto il mondo.
Quando Ham fu scarcerato con pubbliche scuse, l’epidemia si era trasformata in una pandemia…
TERZA PARTE.
Il resto è silenzio.
La terza parte si svolge nel presente teatro abbandonato a Londra.
Quando Ham termina di raccontare la sua storia e di come, dalla Cina, decise di venire in Europa per dare il suo contributo scientifico alla lotta contro il virus, il silenzio torna a cadere pesante sulle tavole del palcoscenico abbandonato.
Horace è senza fiato, senza parole.
Ora più che mai gli sembra di vivere un sogno, anzi un incubo.
È possibile che le persone che conosce siano state contagiate? Anche la sua amata sorella?
“E’ possibile”, risponde Ham, “esistono dei sopravvissuti, ma è possibile”.
Horace non si da pace: “e adesso?”, chiede al medico.
Ham risponde che ha scoperto di essere stato contagiato qualche settimana prima e non ha più molte speranze di sopravvivere. E chiede a Horace di fare qualcosa per lui…
Horace deve andare, non fermarsi e cercare gli altri sopravvissuti. Cercare gli uomini e le donne che hanno visto e vissuto e che si sono salvati. Andare da loro e raccontare la sua storia, la storia di Ham. Affinché un domani non accada più che l’uomo accetti di ignorare ciò che è vero, ciò che sappiamo essere vero. Affinché la sua storia non sia passata invano.
Quando Horace esce dal teatro abbandonato nel centro di Londra, la notte è passata e sta sorgendo il sole.
Posso finire con un piccolo appello?
Mi piacerebbe salutarti dicendo che abbiamo una speranza concreta per sconfiggere i “virus” ed essere più preparati la prossima volta. Perché una società sia sana e solidale, aperta, onesta… è importante creare un ambiente “basico” e non “acido”, dove le cellule possano ricrearsi e ossigenarsi costantemente come in un organismo vivente in salute. Le risorse che abbiamo per creare questo habitat, per noi, si chiamano Arte e Cultura.