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La scenografia dell’Italia firmata Margherita Palli. Intervista

Sogno di una notte di mezza estate|Margherita Palli

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Margherita Palli
Margherita Palli (photo: rsi.ch)

“In Italia, e te lo dico da svizzera, si è abituati ad un modo di vivere un po’strano… Sono arrivata a Milano nel ‘68, quando la città aveva un inquinamento davvero pazzesco perché si usava ancora il carbone per riscaldare, e nell’aria c’era un colore perennemente grigio. Io venivo da un paese di montagna e, dopo due mesi che ogni fine settimana tornavo a casa, mia madre mi prese in disparte e mi disse: “Ora che vivi da sola però lavati di più!”. Subito non capii quale fosse il problema della mia presunta non igiene; finché non mi parlò dell’acqua nera fuoriuscita dai vestiti che mi lavava quando tornavo a casa.
Mia suocera è nata e cresciuta a Milano e ha sempre parlato della sua città come uguale a trent’anni prima: poca pioggia, cielo sereno, niente smog. Io, invece, del mio arrivo a Milano ricordo bene l’umidità delle lenzuola e la perenne pioggia, lo “sporco” di cui parlava mia madre e il tavolo da disegno dove continuamente passavo salviettine che diventavano nere.
L’Italiano è così: rievoca un tempo passato migliore, anche se nel presente non è mai esistito”.

E’ con questi ricordi che Margherita Palli, scenografa approdata quest’anno al suo quinto Premio Ubu con “Sogno di una notte di mezza estate” (regia di Luca Ronconi, in scena al Piccolo Teatro di Milano), racconta l’Italia centrando appieno uno dei motivi per cui il nostro Bel Paese fatica a stare al passo coi tempi.
Abbiamo avuto il piacere d’incontrarla tra le aule dell’università Iuav di Venezia, dove insegna dal 1991, per cercare di capire come lo scenario teatrale italiano contemporaneo si stia riversando sul mondo della scenografia e quali siano gli effetti visibili non solo a occhio nudo.

Al suo quinto Ubu nel 2010, continua a ricevere conferme del suo lavoro, nonostante sia trascorso circa un ventennio dal primo, arrivato con “Le due commedie in commedia”. C’è qualcosa di caratterizzante nei suoi lavori che le ha permesso di essere sostenuta per così tanti anni dal giudizio della critica?
Di certo posso dire che una delle costanti dei miei lavori è la trasformabilità. Le scene che progetto sono in genere trasformabili durante lo spettacolo, così da creare nuovi ambienti con gli stessi elementi e da permettere agli attori di giocare con lo spazio. Altro elemento che mi piace utilizzare è la deformazione prospettica, che permette di fare apparire linee parallele convergenti in punti di fuga, aumentando illusoriamente la profondità della scena. Credo siano questi i due elementi che fanno sì che le mie scenografie “non invecchino” e che, forse, la critica apprezza a distanza di tanti anni.

E’ proprio nel 1984, anno del primo Ubu, che ha stretto il sodalizio con Luca Ronconi. In base alla sua esperienza con lui, secondo lei la scenografia nasce con la regia o per la regia?
Penso che regia, scene, costumi e musiche camminino sempre assieme. Chi ha la visione a 360 gradi di ciò che deve accadere è il regista, ma capita spesso che, parlando con scenografo, light designer, costumista, tecnici, nascano spunti o suggerimenti utili ad apportare modifiche registiche e viceversa. E’ un continuo intrecciarsi di idee. Diciamo che il regista ha l’opera in mano nella sua interezza, e nel caso di Ronconi non si può dire che non la gestisca con gentile autoritarismo (altrimenti non potrebbe essere il regista che è). Ciononostante non si sottrae al confronto e al dialogo con tutti gli operatori coinvolti. Questo vale per ogni forma di spettacolo, anche nel cinema è così. Prendi il caso di “E.T.”: il regista di è Spielberg, ma se Rambaldi non avesse inventato quel pupazzo che tutti conosciamo, “E.T.” non sarebbe stato così nel nostro immaginario e forse non avrebbe avuto la fama che ha. Quindi, di chi è l’idea di E.T.?
La cosa interessante del fare spettacolo è proprio il lavoro di equipe, la nascita dell’idea che pian piano cresce e si modifica con tanti altri spunti e suggestioni, fino a non sapere più di chi sia, ma diventando di tutti.

Crisi del teatro: è uno degli argomenti più discussi in questo periodo. In che modo, secondo lei, si ripercuote nel mondo della scenografia?
In mancanza di fondi economici, la scenografia è la cosa più facile da tagliare. Eppure io credo che si possono fare delle belle scene anche con poco, può bastare un tavolino o una sedia… a volte più che i soldi, è la volontà che manca. Recentemente ho conosciuto un gruppo teatrale svizzero, formato da un ragazzo e una ragazza, che portano in giro nel mondo i propri spettacoli con scene disegnate, montate e trasportate da loro. E sono belle, semplici ed incisive: non è così necessario il ridondante per la scenografia. Perciò credo che più che un taglio obbligato, sia una scelta per non perderci troppo tempo o ingaggiare chi è capace.

Il ‘Sogno di una notte di mezza estate’ di Ronconi

E’ lecito che il teatro contemporaneo vada sempre più verso un “minimal” scenografico, mentre ridondanti scenografie restino privilegio di ricche produzioni d’opera?
Sentir dire che le scenografie d’opera siano costose e perciò “elitarie” è, secondo me, un arrampicarsi sugli specchi. Il teatro d’opera è oggi un teatro popolare, va molta più gente a vedere l’opera di quanta ce ne andasse nel ‘300, quando erano solo le corti a poterlo fare. E’ l’ennesimo falso problema tutto italiano che continuiamo a sostenere perché a noi piace lamentarci. Anche in Francia o in Germania c’è crisi e non solo nel teatro, ma se ne parla meno e ci si rimbocca di più le maniche per cercare di farcela con quello che c’è. Penso che i grandi spettacoli fatti tra gli anni Settanta e Ottanta non ci saranno più perché non ci sono i soldi per farli; oggi però le iniziative culturali sono molto più numerose che in quegli anni. Quando io, nel ’68, sono arrivata a Milano c’era una mostra all’anno; oggi non fai in tempo a decidere cosa vedere che già inizia qualcosa di nuovo da prendere in considerazione. Eppure la gente si lamenta che succedono poche cose. E’ un problema di mentalità. Io dubito fortemente che i teatri che oggi dichiarano miseria siano prossimi alla chiusura. Credo solo che dovranno riuscire ad adattarsi ed abbassare un po’ il tiro: all’Opera Bastille di Parigi (anch’essa dichiaratamente al rosso), c’è un bel bookshop e un café che vende del buon vino: è chiaro che si sono inventati qualcos’altro per reperire soldi, ma lo hanno fatto senza indugiare troppo, anche se si è trattato di operazioni “non propriamente culturali”.
So che la Borsa è crollata, che c’è crisi e che le banche chiudono, ma il teatro è, secondo me, l’unico problema che non esiste; la crisi è nel danaro non nel teatro: la vedo quando vado al supermercato, non quando vedo uno spettacolo. Se i soldi sono pochi è lecito che i tagli siano alla cultura e non magari alla sanità, ma è sempre stato così: durante la guerra la prima cosa che si tagliava era la cultura. C’è poi da dire che l’Italia è un Paese con tantissimi teatri rispetto ad altre nazioni europee: Milano è la città dove il rapporto tra abitanti ed evento teatrale è il più alto d’Europa; eppure se ne parli con gli abitanti ascolti solo lamentele sul “qui non succede mai niente”. Non a caso viviamo nella patria del melodramma!
Un po’, quindi, è il piangersi addosso che non aiuta il Paese, e d’altro canto bisognerebbe cercare di avere meno puzza sotto il naso e fare le cose sì con meno soldi, ma farle. Perché non trarre beneficio dalla mancanza, pensando a soluzioni alternative? Reinventarsi può anche essere divertente e molto più interessante.

In cosa, d’ambito teatrale, sente allora concretamente questo disagio che il Paese dice di avvertire fortemente in ogni settore?
Parlando da lavoratrice del teatro, per me il più grande problema di quello italiano è la programmazione. È diventato impossibile sapere in anticipo quali spettacoli gireranno in un teatro, se lavorerai da lì a due mesi… Ti chiamano oggi per il giorno dopo, ti propongono qualcosa, accetti poi disdicono, t’impegni per un altro lavoro e poi ti richiamano per quello appena disdetto. E questo dipende da cause politiche, poiché i teatri italiani sono quasi tutti statali. L’Italia è l’unico Paese al mondo in cui ogni città ha il suo teatro d’opera e non parlo solo dei capoluoghi, ma anche delle province: nel resto d’Europa il teatro d’opera famoso è quello della capitale. Noi siamo invece nella “patria delle regioni”. La provincia italiana è ricca e colta; se vai a Parma, tanto per dirne una, vedi ricchezza ovunque ti giri; la provincia francese, ad esempio, non ha negozi di marca. La famosa autonomia regionale (e tengo a precisare che non approvo la politica di Bossi!) è molto forte: un sardo riesce a comunicare poco con un valdostano, ogni regione ha la sua lingua. Lingua, non dialetto. Continuo a tirare in gioco la Francia perché ci vado spesso in questo periodo, avendo curato l’allestimento per “Il Trittico” di Puccini (ora in scena all’Opera National di Parigi). Ecco, lì parlano tutti il francese, magari con accenti leggermente diversi, ma mangiano gli stessi piatti, bevono tutti il Pastìs e hanno tutti gli stessi vini. Da Milano a Firenze, invece, se vai al mercato trovi le stesse verdure ma con nomi diversi, lo stesso pesce ma con altri appellativi. Questo per dire che l’Italia è un paese molto variegato, il che può essere un’arma a doppio taglio, ma io credo che tirando le somme sia un grosso vantaggio. Altra cosa è poi la mentalità di chi vi abita, ed è quella che secondo me fa la differenza. Teatralmente parlando, Ibsen ed Eduardo raccontano la stessa cosa; ma perché il primo risulta tanto pesante rispetto al secondo? Per il modo in cui la raccontano, ma la tragedia è la stessa.
Da non sottovalutare è poi un problema che davvero merita di essere tale e che io avverto molto stando a contatto coi giovani grazie all’insegnamento: siamo un paese di vecchi. All’estero trovi l’architetto di trent’anni che costruisce un edificio, o il designer di successo ventenne. Da noi se non sei acclamato dalla stampa e dai giornali, se non sei già un nome (e quindi non hai superato almeno i quaranta), non fai nulla. I giovani non hanno spazio e non ricevono fiducia, siamo vecchi e attaccati al vecchio. I nostri politici ne sono la prova più eclatante.

Nonostante sembri che il teatro contemporaneo tenda sempre più a scavalcare la scenografia, esistono ancora molte scuole in cui s’insegna e tanti giovani che vogliono apprenderla. Che consiglio si sente di dare, oggi, a chi investe su questa strada come possibile sbocco lavorativo?
Se non avessi fiducia nel futuro lavorativo della scenografia non starei qui ad insegnarla! Il punto da sottolineare è che anche il termine “scenografia” è ormai vecchio. Lo scenografo oggi non fa più solo quello, ma si occupa di tante cose; è un lavoro che è diventato molto più ampio. Forse è questo ciò che i giovani appassionati di questa materia devono capire. Una volta lo scenografo si occupava solo di opera lirica e prosa, adesso gli sbocchi della professione sono cambiati. I francesi chiamano lo scenografo “decorateur”, “decoratore”, e secondo me è il termine più appropriato perchè in questa parola entra di tutto: dalla vetrina del negozio a Wagner. Da noi la “scenografia” ti colloca dentro confini, limitando molto anche le possibilità di impiego. Persino la parola “Accademia” all’estero sa di buffo…
C’è bisogno di rinnovamento, di aggiornarsi sulle nuove possibilità d’illuminazione di uno spettacolo, sui nuovi tessuti e colori, bisogna saper cambiare continuamente senza restare attaccati a ciò che già si conosce solo perché ci è noto. A noi piace troppo stare nel nostro nido, a spolverare e lucidare le cose in soffitta per farle apparire sempre nuove…ma così non andremo mai davvero avanti.

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