Da Frosini/Timpano a Gianluigi Gherzi e Giuseppe Semeraro, Arearea, Francesca Sarteanesi… tanti artisti per la settimana conclusiva de Il Giardino delle Esperidi 22
È la letteratura il fil rouge della settimana conclusiva a Il Giardino delle Esperidi. Con l’entusiasmo della vittoria del bando sulla rigenerazione dei borghi promosso dal Ministero della Cultura, il festival diretto da Michele Losi guarda al futuro con serenità.
Tuttavia Campsirago non elude lo sguardo verso penombre e cadute. Rientra in quest’ottica la lettura dell’Opera Omnia di Cesare Pavese. Per quattro giorni consecutivi, da lunedì 27 a giovedì 30 giugno, otto artisti si sono avvicendati dalle 7 del mattino a mezzanotte sul palco di Palazzo Gambassi.
Ruggero Dondi, Marco Gobetti, Anna Delfina Arcostanzo, e gli attori di Campsirago Residenza Anna Fascendini, Giulietta de Bernardi, Liliana Benini, Sofia Bolognini e Sebastiano Sicurezza hanno narrato il legame tra lo scrittore e la sua terra. Un nodo sentito non solo come affetto e memoria, ma come qualcosa di fisico: la matrice biologica alla radice del nostro modo di essere, dei nostri sogni e delle nostre inquietudini.
Pavese nasceva a S. Stefano Belbo (Cuneo) il 9 settembre del 1908. Pochi mesi dopo, nel febbraio 1909, a Parigi Filippo Tommaso Marinetti pubblicava il “Manifesto della letteratura futurista”.
“Disprezzo della donna. Il futurismo della specie” è un “concerto-spettacolo di e con Elvira Frosini e Daniele Timpano che approfondisce il tema della misoginia proprio nella poetica futurista. Uno spettacolo che non è semplice amarcord, ma piuttosto la vivificazione di un’esperienza che ha segnato un solco rispetto alla letteratura romantica.
Frosini e Timpano premettono di stigmatizzare la deriva violenta, antiparlamentare e maschilista del futurismo. Come in “Acqua di colonia”, la loro è una satira graffiante verso un immaginario che disprezza la donna in quanto angelo, focolare, icona della fedeltà, simbolo d’accudimento. Il testo, curato con grande acume filologico, è liberamente tratto dagli scritti di Maria D’Arezzo, Enrica Piubellini, Volt, Depero, Emilio Settimelli, Giovanni Papini, Valentine De Saint-Point, Rosa Rosà, Adele Clelia Gloria, Irma Valeria, Libero Altomare, Benedetta Cappa e dello stesso Marinetti.
La recitazione è vorticosa e avvolgente. Frosini e Timpano sono agenti dello stesso turbine. Ci trascinano dentro un linguaggio che sublima i miti di un’avanguardia. Il ritmo è avvincente. Ne siamo travolti e abbacinati. L’estetica divora i contenuti. Contempliamo, divertiti e spiazzati, quel coagulo di provocazioni reboanti. Domina la musicalità metallica del verso, la forza poietica della parola, l’azione che sovrasta i sentimentalismi e le pastoie romantiche.
Ma il futurismo con il suo disprezzo della donna era davvero senza futuro, come affermano i protagonisti nei materiali dello spettacolo? O non ha contribuito piuttosto a liberare (oltre al linguaggio) anche la donna di quella patina edulcorata che la inchiodava a un ideale stilnovista? Interrogativi. Che rendono questo spettacolo utilissimo a chi si vuole accostare senza filtri al movimento fondato da Marinetti. Nel finale onirico e stordente le luci arancioni di Omar Scala s’impossessano di palco e platea. Si fondono con i costumi realizzati da Marta Montevecchi. Deflagrano nei rumori di Lorenzo Danesin. Anche questa fascinazione sinestetica è futurista. E finisce per contagiare gli attori non meno che noi spettatori. Come se la creatura sfuggisse al controllo dei creatori, e diventasse assertiva oltre le loro stesse intenzioni. Una sorta di Sindrome di Stoccolma, per Frosini e Timpano. Perché è impossibile mettere in scena il futurismo in maniera così convincente, senza esserne intimamente affascinati.
Poesia distopica di cent’anni fa, poesia eufonica del presente. Quest’ultimo è il caso di “Mappa dei luoghi selvatici”, di e con Gianluigi Gherzi e Giuseppe Semeraro.
Cicaleccio e brillio della collina a Mondonico, Olgiate Molgora. Poesia scovata rovistando nella spazzatura: quella delle stazioni, tra murales, scritte degli ultrà sulle pareti di cemento, droga e polizia. Il trucco pesante sul viso di una ragazza in metropolitana. Poesia malata da lockdown. Poesia tra Milano Centrale e Salento. Poesia da Espresso del Levante. Poesia da periferie esistenziali di città, oppure del lembo estremo d’Italia. Poesia tra i veleni dell’Ilva, la diossina che uccide il bestiame, i liquami che intossicano le cozze. E gli ulivi inariditi dalla xylella, nella campagna assolata e silente. Poesia raccolta come i frutti mai caduti dai rami. Poesia come falene notturne, i fiori che i morti offrono ai vivi, le pareti scrostate, lo scompiglio recato in casa da un amico che viene a visitarci. Poesia tra veleni e macerie, mentre il merlo canta solitario su un albero morto.
Gherzi e Semeraro. Sguardi che si cercano, s’incontrano e coprono distanze di anni e chilometri. Due stili, due timbri. Testi scritti con la voce. Geografia dell’umano che muove emozioni. Storia di un’amicizia e dell’anelito a un linguaggio comune. In un monologo a due voci confluiscono due identità. Le stesse di chi le raccoglie e prova, in poche righe, a renderne la magia e lo smarrimento.
Letteratura e natura. Quella di Campsirago Residenza con “Amleto. Una questione personale” e “Hansel e Gretel” nei boschi sul Monte di Brianza.
“Amleto” (regia Anna Fascendini, Giulietta De Bernardi, Michele Losi, in scena e nell’itinerario con Barbara Mattavelli, Benedetta Brambilla, Liliana Benini, Maralice Tagliavini, Sebastiano Sicurezza, Sofia Bolognini e Stefano Pirovano) è un esempio riuscito di teatro nel paesaggio che sviscera trappole e inquietudini del capolavoro shakespeariano, svelando quel senso di arcaico, arcadico e grottesco. Il lavoro è una ripresa dalla scorsa edizione del festival. Ma lo abbiamo trovato assai più maturo. È più marcata la coesione tra i linguaggi usati (i costumi di Stefania Coretti, le musiche di Diego Dioguardi e Luca Maria Baldini, i testi di Sofia Bolognini). C’è più spazio per il silenzio, la riflessione e l’ascolto: quello della natura, quello del pubblico e degli attori tra di loro. La parole arrivano subliminali e sottovoce, più nitide, di fronte a un calare dei decibel. Le scenografie naturalistiche sono potenziate dall’inventiva scenografica degli artisti.
Poesia, simboli, valorizzazione del paesaggio. Sono gli ingredienti anche di “Hansel e Gretel”. I protagonisti sono gli stessi di “Amleto”, seppure in alternanza. Noi vediamo in scena Sebastiano Sicurezza, Giulietta De Bernardi e Barbara Mattavelli.
L’armonia del gruppo si consolida e valorizza natura e architetture di Villa Besana, a Sirtori. Rileviamo un’ulteriore espansione delle alchimie comunicative. I paesaggi sonori di Dioguardi e Baldini diventano struttura portante della drammaturgia. Essi stessi sono opera, e d’alto livello. Gli attori riescono, anche grazie all’aiuto di semplici marchingegni artigianali, a coinvolgere il pubblico dei più piccoli, nonostante Bolognini e Sicurezza tendano a giocare con il sottotesto della fiaba, lavorando su un livello di complessità che può renderne criptica la comprensione. Resta il fatto che l’impianto scenico e la bravura degli attori trasmettono un’energia comunicativa che annulla o compensa le spigolosità drammaturgiche. Al cui senso si accede comunque per evocazione e associazioni emozionali, un po’ come nel “Castello errante di Howl” di Miyazaki.
Per restare alla letteratura, ci è sembrato interessante il presupposto di “130 repliche de il “In nome della Rosa”, teatro di riciclo di e con Marco Gobetti, che riesce però solo in parte ad addentrarsi nei segreti del romanzo di Umberto Eco, messo in scena nel 2016/17 da Leo Muscato per i Teatri Stabili di Torino, Genova e del Veneto. Vari gli aneddoti raccontati, ma pochi restano nella memoria.
Buona invece l’idea di Francesca Sarteanesi. Che in “Sergio”, con la collaborazione drammaturgica di Tommaso Cheli, ripercorre scene ordinarie di vita di coppia, in un dialogo con una persona che non c’è, o per lo meno non si vede. Scena vuota. Accento e sapidità toscani. Recitazione di profilo. Abito incolore, come la sostanza della conversazione. La sfida è di raccontare una storia a due facendo riferimento a episodi e situazioni in apparenza banali, guardando un punto all’infinito, distogliendo raramente, lo sguardo da quel punto, scandendo mentalmente una sequela di botta e risposta immaginari. La difficoltà di fare una cosa semplice. La capacità di rendere la quotidianità di una relazione attraverso un dialogo travestito da monologo, laddove nel mondo reale abbondano i monologhi travestiti da dialoghi.
Poca danza nel festival, ma assai buona. Qui e ora Residenza teatrale presenta “Vertigine della lista”, coreografia di Giorgio Rossi, con Francesca Albanese, Silvia Baldini, Lorenzo De Simone e Laura Valli. La vita è quello che succede mentre il computer scarica gli aggiornamenti. E intanto Putin attacca un nuovo Paese, e il filosofo Agamben dice la sua su qualcosa di nuovo. Spettacolo che non si prende mai sul serio. Qui la danza è gesto nevrotico, atto frenetico, disegno scomposto. Eppure i performer si armonizzano in ensemble, e riproducono dipinti celebri della storia dell’arte: dal “Martirio di San Matteo” di Caravaggio al “Sabba delle streghe” di Goya; dal “Prestigiatore” di Bosch alla “Libertà che guida il popolo” di Delacroix. Uno spettacolo disordinato e senza un filo conduttore, come disordinata e senza trama è la vita. I mille modi in cui si può ricominciare e forse rinascere. Una danza sbilenca e sgraziata, buffa e sardonica, sbollentata e shakerata. Suggestioni filosofiche. Poeticherie strambe. Ilarità pensose. Uno studio. Ma “Vertigine della lista” ci piace così: indefinito come un amore senza matrimonio, irrisolto come un film dal finale aperto, inedito e sperimentale come un dipinto lasciato a metà.
Finale all’insegna del sacro con Arearea. “Le mura” sono limite, spazio urbano, confine per un altrove tra spiritualità e natura. La danza di Marta Bevilacqua, Roberto Cocconi, Luca Campanella, Angelica Margherita, Andrea Rizzo, Valentina Saggin, Anna Savanelli e Luca Zampar segna i confini di un rito dove l’incontro di corpi è divino. Fiori e tappeti persiani sul prato creano un luogo di condivisione da pittura impressionista. I corpi s’inseguono e s’intrecciano. Si lanciano e si appartengono. “Le mura” è preghiera e possesso, dono e cortesia. Le musiche originali di Alessandro Montello inneggiano alla sensualità. Creano coreografie viscerali. Disegnano euritmie incalzanti. Tratteggiano un’umanità che trova la propria dimensione fuori dai confini pietrificati e antropizzati, in un orizzonte onirico che non rinuncia alla fisicità e all’idea di potenza.
Lo spettacolo, progettato da Cocconi con Claudio de Maglio e Fabrizio Zamero, prezioso gioco d’ironie, allusioni ed eleganti rimandi, chiude con spregiudicato snobismo e nitidezza di contorni un’edizione del Giardino delle Esperidi appassionata e irriverente.