Mauro Danesi: “Orlando vuole leggere la realtà in modo nuovo”. I bilanci del festival

Bodies in the dark
Bodies in the dark

Appuntamento al buio con Elephants Laugh per la chiusura della decima edizione del festival bergamasco che indaga la pluralità

Trovare sé stessi nell’arte, dentro un assoluto imperscrutabile. Sprigionare i sensi a contatto con l’ignoto e l’immateriale. Affondare nel buio, e affrontare i propri fantasmi. Per appagare un bisogno di conoscenza disposto a confondersi con la morte.
È una sorta di deliquio estetico la performance immersiva “Bodies in the Dark”, uno dei lavori più interessanti di Orlando, festival di cinema, danza, arte, teatro e incontri la cui decima edizione si è chiusa a Bergamo il 7 maggio.
Realizzato dalla compagnia Elephants Laugh in collaborazione con Art Council Korea e con il Consolato Generale della Repubblica di Corea del Sud, “Bodies in the Dark” è un incontro con l’Edipo nascosto dentro ciascuno di noi.
Affrontiamo il destino. La cecità s’inabissa nell’ignoto. Entriamo nel luogo in cui tenere gli occhi aperti o chiusi non cambia la percezione delle cose. Benvenuti nel regno del mistero.

La regista sudcoreana Jinyeob Lee, con Hyun Sung Seo, Sun Hee Park e Hyun Woo Jung, destruttura la scena, abbandona il tempio del teatro e racimola gli spettatori per strada, nella solitudine di luoghi nascosti.
«Occhi ciechi al mondo / occhi nei crepacci del morire […] Noi siamo una carne con la notte» (Paul Celan). Come Edipo, lacerato, orbo, ci aggrappiamo alla nostra Antigone. Ci addentriamo in un oltremondo onirico. Rinunciamo a ogni percezione visiva. Diventiamo anime vaganti spogliate di tutto, dal cellulare a quanto decidiamo spontaneamente di abbandonare minuto dopo minuto.
Brancoliamo inebetiti dentro un percorso introspettivo, intersecando le solitudini altrui, per costruire il contatto etico dei corpi. Ripieghiamo in un mondo smaterializzato di suoni e balli: “Bodies in the Dark” come il film “Dancer in the Dark” di Lars von Trier.

Jimmy Sert al suono, coadiuvato da Jaemin Yoon, coagula paesaggi dell’anima elegiaci, che avrebbero affascinato il Dante del “Purgatorio”. Ci abbandoniamo a voci metafisiche, al fresco dell’acqua percepito dalle orecchie e non dal tatto. Affiorano bagliori di vita.
Sveliamo suggestioni personali per non spoilerare un lavoro che è tutto un segreto. Ciò che non accade conta più di quel che accade. Le domande risuonano evanescenti nella coscienza. Brancoliamo verso l’ignoto. Percuotiamo un buio che nasconde immagini e verità. La solitudine è l’anticamera dell’incontro. Percepiamo lo scarto tra pregiudizio e conoscenza. L’arte stravolge l’ordine cosmico. «E il naufragar m’è dolce in questo mare».

Il corpo, le identità, gli orientamenti sessuali nella cultura contemporanea: è la cifra di Orlando. Se non bastasse il teatro, ecco i cortometraggi. Che con il loro linguaggio denso e simbolico conferiscono un’efficacia rappresentativa spesso superiore a quella dei film tradizionali.

A Lo Schermo Bianco la selezione di cortometraggi queer, giunta alla quarta edizione, parla d’amore e dolore. Indaga la persona con la sua spiritualità e complessità.
“Um Caroço de Abacate” di Ary Zara (Portogallo, 2022) è un incontro nel cuore della notte fra due solitudini. Inizia il valzer della seduzione. Un appuntamento spirituale e intellettuale che non pare preludere alla fusione fisica. Le domande. Le risposte fugaci, evasive. Ogni menzogna è prima di tutto autoinganno. Telecamere usate in modo vorticoso. Un capogiro di primi piani. Intrecci effimeri. Allusioni. Sguardi senza approdo. E un bel finale che non tiene a bada la malinconia.
“Dildo” di Jake Consing (Filippine, 2022): basta un minuto per incontrare la propria sessualità?
“Warsha” di Dania Bdeir (Libano, 2022) è una fuga dal mondo, dal frastuono di un cantiere, dal baccano di chiacchiere e giudizi. Librarsi sulla città, dentro una gru più alta del cielo: sospesi nel nulla per incontrare il vero sé mediante l’immaginazione, mentre un drappo rosso evapora nel vuoto.
“Persona” di Moon Su-jin (Corea del Sud, 2022): le maschere che indossiamo durante una giornata, durante una serata. Poi le deponiamo, le laviamo, le asciughiamo. Torniamo a indossarle ogni volta più sdrucite. Sette minuti di manga per riflettere sul significato di “persona”, partendo dall’etimologia. Ambientazione da sala da bagno. Davanti al corpo nudo, menzogne e travestimenti perdono di senso.
“Hideous” di Yann Gonzalez (Regno Unito, 2022), e la fatica di trovare uno spazio vitale in un mondo soffocante. Le canzoni di Oliver Sim come bussola. Lo stigma dell’omosessualità e dell’HIV. Effetto Pigmalione: sentirsi mostruosi sotto gli sguardi accusatori altrui, fino a diventarlo realmente. Venti minuti tra splatter, horror e buoni sentimenti. Soprattutto, un electro pop trascinante, sofferto, e testi musicali che da soli fanno sceneggiatura.
Come si costruisce l’identità? Di quali riferimenti abbiamo bisogno? “Tank Fairy” di Erik Rettstadt (Taiwan, USA, 2021) è una risposta grottesca, sardonica, a bullismo e omofobia. Colore, stupore, ironia sono il tocco magico per spiazzare la ferocia altrui. E forse, per esorcizzarla.

Non resta che far festa nell’ultimo weekend, prima all’INK Club con Queereeoké (Germania), poi a Daste con Daria Greco e Salvo Lombardo in “Outdoor dance floor”, azione crossmediale caleidoscopica, prima del dj set di Erika Galli.

Mauro Danesi (ph: Samanta Cinquini)
Mauro Danesi (ph: Samanta Cinquini)

Per Mauro Danesi, mente e organizzatore del festival, è tempo di bilanci: «Un’edizione di cui siamo molto felici. Gli ultimi anni di pandemia hanno messo a dura prova Orlando. In più dovevamo trovare spazio all’interno di “Bergamo e Brescia Capitale”. Abbiamo totalizzato tremila presenze: non sono poche per un festival come il nostro, che quest’anno ha rinunciato a grandi spazi e a grandi teatri. Abbiamo privilegiato la partecipazione per piccoli gruppi e i laboratori. Gli artisti sono stati plurali per i loro approcci, ma anche per la loro provenienza. Abbiamo valorizzato orientamenti culturali e artistici eterogenei. Orlando vuol essere uno spazio d’incontro plurale, multidisciplinare, anche eccentrico. Per osservare la realtà in modo nuovo. Per leggerla in modo differente e anche cambiarla. Lo scopo è riuscire a destrutturare le dinamiche che la ingabbiano, spesso ingiuste».

Orlando fa breccia nella città. «Le istituzioni ci hanno supportato – continua Danesi – In più abbiamo potuto contare sul sostegno di 50 partner, piccole e grandi associazioni. Le tematiche che trattiamo hanno incontrato una sensibilità trasversale. Siamo tuttavia un ente indipendente. Non abbiamo una struttura forte alle spalle. Lavorando in spazi ridotti, fatichiamo a rendere sostenibile il festival. Per questo facciamo affidamento anche sul volontariato».

Resta il percorso significativo di Orlando che, senza schemi preimposti, veleggia raccogliendo sfide sempre nuove. Il sostantivo “genere” non identifica infatti solo l’identità sessuale, ma anche le forme dell’espressione artistica. «Di certo non cambierà il tema dell’intersezionalità – conclude il direttore artistico – Siamo partiti dall’orientamento sessuale. Ora ci è chiaro che le rivendicazioni sociali e culturali sono valide se escono da un recinto e contemplano la ricerca di radici comuni. Ecco perché quest’anno abbiamo considerato anche temi come l’ecologia, l’accessibilità, le diverse abilità. Nelle prossime edizioni ci muoveremo sempre più in questa direzione».

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