Mary, la “visionaria” che introduce il primo spettacolo della tre giorni di Kilowatt 2010, spiega che uno dei motivi per cui è stato selezionato “La metamorfosi” di Città di Ebla è che Kafka è un autore poco portato a teatro. Sulle prime non mi sento di essere molto d’accordo, ché l’opera dell’autore praghese è alla base di molte riflessioni sul linguaggio scenico stesso e sulla traduzione della materia letteraria in materia teatrale e in questi ultimi anni sono stati diversi i tentativi di dar forma a quell’immaginario. Tuttavia, al termine dello spettacolo, ho modo di ricredermi.
L’operazione messa a punto dal collettivo forlivese Città di Ebla, anche laddove non gode del pregio di originalità, di certo ha dalla sua la conferma di un percorso già inaugurato.
La ricerca portata a termine con “Pharmakos” ha presentato al pubblico una riflessione rivolta all’esasperazione del movimento e del corpo, un omaggio al senso stesso del rituale, ai suoi codici e alle sue durate.
Con “La metamorfosi” il cammino opera un’ulteriore svolta.
In scena, una poltrona di pelle illuminata appena da una abat-jour. Accanto un telefono e una segreteria telefonica. Alla registrazione dei messaggi sarà affidato tutto lo svolgimento parlato. Del racconto di Kafka i personaggi sopravvivono dunque solo sottoforma di voce (il padre, la sorella, la madre) e tutta la pressione esercitata su Gregor Samsa (o più giustamente la figura che liberamente si ispira a quel personaggio) si condenserà in un unico attacco, quello dell’insistenza. La segreteria riceverà messaggi di raccomandazione, richieste di risposta a domande poste da tempo, proposte di appuntamenti che già sappiamo finiranno nel vuoto. Samsa ignorerà tutti i messaggi, tutti gli input che provengono dall’esterno, per andarsi a cercare un luogo intimo in cui poter affrontare il proprio disagio. “Il luogo intimo per eccellenza – spiega l’autore e regista Claudio Angelini – è il bagno”. Allora ecco che sul palco viene ricostruita, incastonato in una enorme teca, un’intera sala da bagno, perfetta nei minimi particolari. Chiara di un bianco sporco, illuminata da una sola plafoniera centrale, la stanza ospita una vasca, una doccia, un lavandino e tutto il resto. In questa sorta di laboratorio, a metà tra l’acquario e la teca dell’entomologo, si svolgerà il più crudele e ultimo degli esperimenti, quello di “diventare animale”.
Si ha la sensazione che al performer Alessandro Bedosti venga, almeno in parte, data carta bianca, al punto che gli viene attribuito anche lo “studio sulla figura”. La figura è quella umana, su cui una disciplina corporea totale, rigorosa, appuntita interviene alla ricerca non di nuove forme, ma di nuove “formazioni”, nuove concrezioni, simili a quelle che l’umidità crea sulle pareti delle grotte formando stalattiti dai colori sgargianti. Bedosti striscia dalla vasca alla parete, percorre il suo mondo a tenuta stagna scomparendo nelle pareti, graffiando i vetri, abbracciando l’acqua, testimoniando una presenza galleggiante che non ha bisogno di mostrarsi in nudo integrale per trasmettere il senso di una desolazione accurata, cattiva, risoluta. La mutazione ha creato una deriva genetica con un proprio dna. Come se questa disperazione avesse finalmente acquistato un posto comodo, una nuova dignità che non crea più disagio. Di certo una deriva genetica sterile, che non ammetterà comunque contatti con altre individualità di speranza e serenità, ma che in qualche modo ha risolto se stessa.
Il giorno dopo siamo tutti riuniti per parlare di quel che abbiamo visto, per dirci in faccia dove tutto questo teatro sta andando e per chiederci se siamo o no in grado di tracciarne il percorso. Dalle parole un po’ avare di Claudio Angelini esce la bella specifica già citata sul “diventare animale”, mezzo usato per creare una sorta di terza via, a partire dallo spostamento dell’intera prospettiva con cui ci si guarda dentro. Ma poco altro. A qualcuno che esprime perplessità e mette in guardia su una possibile deriva estetizzante del lavoro rispondo dando conto di quello che ho sentito intimamente: la perfezione formale di un lavoro è sempre a rischio di sublimazione narcisistica, soprattutto quando c’è di mezzo un’esposizione totale del corpo e delle sue potenzialità. D’altra parte, però, è un dato di fatto di carattere effettivamente clinico che, tra gli antri bui scavati dalla depressione, quello ultimo e più estremo sia abitato proprio quest’eccesso di narcisismo. Allora trovano senso i lunghi momenti che Alessandro Bedosti impiega a studiare allo specchio le varie prospettive, come cercando l’angolazione migliore da cui potersi poi disprezzare al meglio. Per quanto ci sia chi sostiene, a costo di cadere nella tautologia, che “se Kafka avesse visto questo spettacolo avrebbe scritto ‘La metamorfosi’”, una perplessità resta nella scena finale, in cui si compie un passo – che non riveliamo – verso un codice di rappresentazione forse troppo esteriore, che stona con il resto, invece così graniticamente vitale, come una montagna dentro cui però scorre la sorgente, creando quelle famose stalattiti dai colori sgargianti.
LA METAMORFOSI – TERZA MUTAZIONE
liberamente ispirato a “Metamorfosi” di Franz Kafka
ideazione, luci e regia: Claudio Angelini
aiuto regia: Valentina Bravetti
interpretazione e studio sulla figura: Alessandro Bedosti
paesaggi sonori: Elicheinfunzione
sound capture e direzione tecnica: Luca Giovagnoli
cura degli allestimenti: Elisa Gandini
produzione: Città di Ebla, co-produzione: Festival L’occidente nel labirinto – Teatro Diego Fabbri in collaborazione con OFFicINa1011 di Triangolo Scaleno Teatro
durata spettacolo: 50′
applausi del pubblico: 1′ 39”
Visto a Sansepolcro (AR), Chiostro di Santa Chiara, il 23 luglio 2010