Milk di Khashabi Ensemble. Terminate le parole, non resta che un dolore muto

Milk di Bashar Murkus - Courtesy La Biennale di Venezia © Andrea Avezzù
Milk di Bashar Murkus - Courtesy La Biennale di Venezia © Andrea Avezzù

Dalla Palestina alla Biennale Teatro di Venezia, in prima nazionale, la performance visiva di Bashar Murkus sulla morte che mette al centro la figura della madre

Dai territori arabo-israeliani tornai in uno stato di tensione che richiese settimane per stemperarsi. Partita in un viaggio di conoscenza senza nessuna partigianeria, i continui checkpoint, le minacce dei coloni israeliani armati di manganelli, la militarizzazione ordinaria delle città, la sostituzione della linea di separazione tra le due corsie con un muro in cemento armato, mi avevano fatto capire quanto ansiogena e frustrante fosse la quotidianità in quell’area, in particolare per la componente araba, e di conseguenza quanto quel disagio contenesse in sé fisiologicamente un potenziale aggressivo ed esplosivo.

Coltivare vocazioni artistiche in quei contesti è una sfida alle difficoltà più impervie di sostenibilità economica, ai rischi della libertà espressiva e pure alla capacità di canalizzare costruttivamente la propria rabbia. Non ci si può quindi che accostare con curiosità a soluzioni artistiche che consentano di osservare il processo di trasformazione alchemica di un controverso vissuto collettivo.

La Biennale Teatro di Venezia ha offerto l’occasione più unica che rara di assistere ad una produzione teatrale palestinese, realizzata ad Haifa, città israeliana in cui vivono sia ebrei, sia palestinesi ormai giunti alla quarta o quinta generazione rispetto a quella che si è vista occupare la propria terra dall’affluenza sionista: arabi israeliani, quindi, che conservano la loro cultura e la loro lingua in uno stato in cui sono minoranza indesiderata.

Lì il collettivo Khashabi Ensemble si è costituito nel 2011, e successivamente ha convertito uno spazio abbandonato nel primo teatro palestinese del tutto indipendente in terra d’Israele, ovvero affrancato dai sostegni finanziari di natura pubblica: una scelta coraggiosa ma necessaria per evitare la censura. Ne è direttore Bashar Murkus, classe 1992, la cui prolifica carriera lo ha portato dal 2019 a stabilire proficui rapporti coi più importanti centri di produzione e festival europei.

“Milk” è una produzione del 2022 che scompagina ogni prevedibile aspettativa di esplicita denuncia o di documentarismo politicizzato. Si colloca nel filone del visual theatre, privo di drammaturgia, a meno che non si possa considerare tale la musica di Raymond Haddad: azioni e pose statiche, spesso esaltate dal light design, sono accompagnate dal commento di un pianoforte che, con singole note di tono malinconico, condensa gli stati d’animo inespressi dei personaggi.

La capacità evocativa del genere qui tuttavia non è sfruttata nel suo pieno potenziale ed è un po’ tradita da uno sviluppo a tratti prolisso e didascalico. Non si tratta quindi di una vera e propria contaminazione con la visual art, piuttosto Murkus sembra voler rinunciare ad una parola potenzialmente divisiva, facilmente esposta a contestazioni, e lavorare per sottrazione di dati contestuali: il risultato si situa in una dimensione astorica, depurata da qualsiasi provocazione a schierarsi da una parte, se non da quella della vita.

Cinque attrici dai tratti mediorientali entrano in una scena spoglia dai colori cupi, fissando lo sguardo verso il pubblico. Qui si smentiscono gli stereotipi che appiattiscono la cultura di area islamica ad un’indistinta misoginia, spazzata via in questo spettacolo forse proprio da un inno al potere femminile. Infatti, la loro presenza dichiara sin dall’inizio che il nucleo concettuale dell’opera ruoterà attorno alla generatività che esse incarnano, e che risulta perdente nella lotta tra eros e thanatos. Il principio vitale di cui sono portatrici risulta paradossale in un contesto in cui la mortalità precoce non è un’evenienza occasionale.

Palestina, Siria, Afghanistan, ora Ucraina: l’ambientazione potrebbe calarsi ovunque le guerre civili si estenuino insolute per anni, che diventano decenni. Tra le braccia sostengono figli divenuti precocemente manichini inanimati e persino mutilati. Nessuna possibilità di rianimarli, per quanto l’istinto o l’esperienza induca a ripetere in modo stereotipato gesti di cura ed amore. Dal loro seno gocciola persino del latte nutriente, che nessuno beve e che cade sprecato a terra.

Cosa si prova a perdere un figlio? Cosa significa restare madre per sempre senza poterlo essere? Lo sappiamo anche qui nelle società democratiche, ma la domanda specifica potrebbe essere così affinata: cosa si prova quando ciò accade non per cause naturali o incidentali ma per un’ingiustizia strutturale di matrice ideologica, razziale, strumentale rispetto a qualche vantaggio economico o politico?
Il senso di generare la vita in contesti di tensione e conflittualità rischia di apparire assurdo se non invertiamo la logica per cui ad essere assurda è la guerra e le varie forme in cui si prepara o dissimula, compresi i meccanismi precarizzanti di sfruttamento capitalistico.
Chi tuttavia continua a dare la vita e prendersene cura è un moderno Sisifo che tenta di ristabilire l’ordine dei valori umani in uno scenario che continuamente li demistifica.

Lo sforzo delle donne si materializza in scena nella fatica con cui riconfigurano il palco grigio scuro, apparentemente piatto, in realtà costituito da due strati di materassi di cui tolgono il primo. Si crea una delle scene più iconiche, sottolineata da una sospensione della musica e del tempo a cui Murkus ricorre in alcuni momenti topici: in proscenio le attrici tengono i materassini come una barriera verticale oltre alla quale si stagliano a mezzo busto contrapponendosi al pubblico, che fissano immobili con uno sguardo disarmato.
Alle prime donne se ne aggiunge una sesta, incinta: porta fiori da piantare sull’humus fecondato dai cadaveri-manichini accumulati su un lato; e mele, da mordere come la tentazione di vivere nonostante tutto. E’ donna tra donne: offre e riceve solidarietà e complicità perché, a quanto vediamo, le donne sanno fare comunità.

Il femminile, quindi, e il materno stesso non sono protagonisti esclusivamente nella loro declinazione più tradizionalmente procreativa ma in un’accezione più trasversale che riconosce la generatività e la capacità di cura come sfaccettature di un approccio alla vita e alla società protettivo, nonviolento, supportivo, aperto alla prossimità, propenso alla relazione e alla collaborazione.
Quella comunità si protegge dalla platea tirando un sipario di plastica trasparente e su di esso comincia a scorrere una pioggia che non è chiaro se sia un pianto del cielo o una benedizione.

La scena si sgombra e lascia uno spazio esclusivo all’incontro tra la giovane madre e il figlio atteso in un parto che nella composizione ha dei passaggi di pathos un po’ troppo insistito ed ingenuo. Nasce l’unica presenza maschile dello spettacolo, un ragazzo emblematicamente già adulto: di fatto, il cordone ombelicale poco dopo viene reciso dalla morte della madre. Una rabbia distruttiva coglie il giovane, che sovverte il pavimento accatastando con violenza un secondo strato di materassini e scoprendo il fondo liquido bianco-latte.
Scivolare e rialzarsi dai substrati genitoriali, fare i conti con la perdita materiale o simbolica di chi ci ha generati non è questione semplice nemmeno in tempi di pace e non lo è per il nuovo protagonista.

Le altre donne rientrano ciascuna portando con sé un’asta con un microfono. Che dire, se non il proprio esserci? Viene quindi amplificato solo il loro respiro, mentre continuano a fissarci. Si prestano poi ad essere madri sostitutive, disponibili agli abbracci e agli scherzi; ma irrazionalmente subentra un impulso di rifiuto che le porterà ad allontanare da sé chi non potrà mai rimpiazzare il figlio di cui esse sono orfane.

La morte arriva anche per questo ragazzo, senza un perché. Il rosso sangue contamina il velo di latte sul pavimento. Attorno a lui, le sue non-madri compongono un gruppo scultoreo che rievoca una Pietà al plurale, immobile in un silenzio rotto soltanto dal gracchiare dei gabbiani liberi in laguna.
La forza delle donne sembra tuttavia inesauribile, e modifica ancora lo spazio spostando i materassini a creare una nuova, più alta barricata contro il pubblico. Su di essa le attrici salgono temerariamente, mentre torna a piovere e la luce alle spalle le investe; poi stendono i loro corpi, ora sì sfiniti, richiamando stilemi iconografici dell’arte sacra e cerimoniale.

Gli occhi che ci hanno fissato chiedono una risposta. L’unica che siamo in grado di offrire è la compassione. E forse è proprio questa che il regista intendeva sollecitare.

MILK
Un performance visiva di Bashar Murkus e Khashabi Ensemble / Palestine
Ideato e diretto da Bashar Murkus
Scenografia di Majdala Khoury
Musiche originali di Raymond Haddad
Drammaturgia di Khulood Basel
Disegno luci e direzione tecnica di Muaz Al Jubeh
Con Salwa Nakkara, Reem Talhami, Shaden Kanboura, Samaa Wakim, Firielle Al Jubeh, Samera Kadry, Eddie Dow
Assistente alla regia: Abed Al Jubeh
Assistente scenografia: Nancy Mkaabal
Assistente direzione tecnica: Moody Kablawi
Direttore di scena: Reema Assaf
Produzione: Khulood Basel – Khashabi Theatre 2022
Produzione internazionale e tournée: As Is Presenting Arts
Co-produzione: Festival d’Avignon, Théâtre des 13 vents Centre dramatique national de Montpellier, Théâtre de Liège, Romaeuropa Festival, Palestinian National Theatre El Hakawati (Gerusalemme), Culture Resource, Théâtre Jean-Vilar (Vitry-sur-Seine), Rosa Luxemburg Foundation, Moussem Nomadic Arts Centre (Bruxelles), Compagnie Théâtre Alibi – Fabrique de Théâtre (Bastia)

Durata: 1h 20’
Applausi del pubblico: 2’

Visto a Venezia, Biennale Teatro, il 24 giugno 2023
Prima nazionale

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