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Mimmo Sorrentino: il mio teatro, partecipato per libera scelta. Intervista

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Mimmo Sorrentino (photo: Luciano Paselli)|Mimmo Sorrentino durante lo spettacolo (photo: Luciano Paselli)

Mimmo Sorrentino (photo: Luciano Paselli)
Mimmo Sorrentino (photo: Luciano Paselli)

Mimmo Sorrentino ha portato il suo teatro partecipato al Teatro Due di Roma all’interno della rassegna “A Roma! A Roma!”.
A seguito dell’esperienza a Radio Tre dello scorso anno, l’autore sta condividendo con il pubblico le storie delle persone con cui ha lavorato nella sua lunga esperienza di drammaturgo nei laboratori di teatro partecipato. “‘Adesso che hai scelto’ – racconta l’autore – è uno spettacolo sulle ragioni che ci spingono a scegliere qualcosa piuttosto che un’altra. Una persona piuttosto che un’altra. Ed è uno spettacolo che ha l’ambizione di far nascere nel pubblico un desiderio: il desiderio di scrivere una poesia, che altro non è che la lingua con cui raccontiamo ciò che accade dentro di noi”.

Divise in sette gruppi, le storie vengono scelte dal pubblico in sala con 5040 possibili combinazioni diverse, mentre Mimmo Sorrentino ci accompagna nella poesia della tragedia contemporanea utilizzando come unica bussola dei ‘souvenir’ che arrivano dai mondi umani nei quali Mimmo Sorrentino ha viaggiato, e che continua a trasformare con il suo teatro.

Abbiamo incontrato Sorrentino dopo lo spettacolo (Premio dell’Ass. Nazionale dei Critici di Teatro – Teatri delle diversità 2014) che, vedendolo sia come autore che come attore, forse più di ogni altro ci mette in contatto con il drammaturgo stesso.

Perché Mimmo Sorrentino ha scelto il teatro partecipato come mezzo d’esplorazione e trasformazione della realtà?
È difficile dirlo. Nell’analizzare una scelta la si analizza sempre dopo che l’hai fatta, e quindi è come quando analizzi un sogno: parte di questo sogno quando ti svegli lo perdi.
Credo di averlo scelto perché mi sembra che quello che faccio mi sia utile; incontrare i detenuti, i malati di Alzheimer, quelli psichiatrici, le persone comuni l’ho sempre considerato per me un modo per continuare a crescere. È una scelta dettata da un’esigenza interiore, e ha a che fare con il mio vissuto; essendo l’ultimo figlio mi si chiedeva di crescere in fretta, quindi evidentemente non faccio altro che adempiere alla missione che altri hanno scelto per me.

“Adesso che hai scelto” è un’esperienza di racconto che nasce per la radio. Quando hai capito che poteva diventare uno spettacolo?
Ho iniziato a pensare allo spettacolo quando mi sono accorto che mi piaceva moltissimo raccontare di queste persone con cui lavoro, e che con la radio avrei smesso. Mi è sembrato che anche il pubblico radiofonico si fosse affezionato a queste storie, e ho deciso di provarci. Ovviamente la grande difficoltà è stata il pensare di andare in scena, perché non ci sono mai andato; sì, è la prima volta, questo è il mio debutto da attore! All’inizio è stato molto complicato, poi ci ho preso gusto. Sto scoprendo un mondo nuovo.

Com’è cambiato questo progetto nel portarlo a teatro?
Ho tentato di non pensarlo come una sommatoria di racconti, ma di dare a quei racconti una struttura che li contenesse e che avesse un proprio svolgimento; in poche parole avevo bisogno che ci fosse una drammaturgia. È stato difficile perché si è trattato di vedere lo spettacolo in una maniera totalmente diversa dalla forma da cui partiva. Ho cercato di dare al progetto una sua autonomia e dignità di spettacolo teatrale; non so se ci sono riuscito, ma di sicuro questa ora e mezza è cambiata molto dai dieci minuti che avevo in radio per raccontare ogni storia.

Carceri, scuole, treni, centri di aggregazione… Le storie nascono in spazi pubblici teatralizzati: quando per te lo spazio diventa teatrale e quando decidi di passare al palcoscenico?
Tutti i miei lavori vengono in primis presentati e realizzati per i soggetti con cui lavoro, quindi loro sono la vera finalità; poi quando mi sembra che quel tipo di soggetto ha i presupposti per interessare non solo le persone del contesto ma anche un pubblico generico, allora provo a verificare se ci sono i canoni per trovare una produzione minima e portarlo su un palcoscenico. Questo però accade veramente molto di rado, non perché penso che il lavoro con l’Alzheimer non possa interessare il pubblico, ma perché è all’interno della comunità il suo spazio teatrale, fuori di lì tu vedi delle figure affascinanti se vuoi, bellissime da vedere in scena, molto poetiche, però perdi il significato delle persone, della loro storia, e il teatro in questo caso non funziona più come elemento di avvicinamento a quella realtà ma come elemento di distanza da quella realtà.

Abbiamo parlato di luoghi. Da questo spettacolo arriva però anche un lavoro di accumulazione, di stratificazione di storie ed esperienze: come interviene il tempo nel tuo lavoro?
Da un punto di vista professionale con il tempo affini molto di più l’ascolto, la capacità di pensare che sei tu il soggetto responsabile di tutto il lavoro. Il tempo ha a che fare non tanto con la messa in scena ma con il rapporto con le persone che ti permettono quella messa in scena, sta lì il lavoro. La messa in scena è il risultato complessivo, però il tempo sta su un’altra parte, su processi molto più lunghi. Poi personalmente delle volte faccio fatica ad accettare la domanda: tutto questo tempo dove sta andando? Adesso faccio lo spettacolo a Roma, sta andando bene, ma dove sto andando? Alla fine, nel tempo, devi accettare che vai sempre verso il tuo desiderio, e quindi verso le cose che non hai.

Parli di desiderio, nello spettacolo citi Lacan. La psicoanalisi entra nel teatro partecipato?
Inevitabilmente a questo punto devo dire che entra tantissimo, ma non intesa in termini terapeutici, io non ho la pretesa di curare assolutamente nessuno (poi se le persone che lavorano stanno bene mi fa piacere, perché quello è il fine del lavoro), la psicoanalisi entra nel teatro partecipato in termini di restituzione filosofica sull’uomo, questo sì.

Mimmo Sorrentino durante lo spettacolo (photo: Luciano Paselli)

Durante lo spettacolo le luci in sala non si spengono mai, se non nel finale, quando ricordi al pubblico che quello che stai facendo è teatro. C’è un confine tra la condivisione con il pubblico di una tua esperienza di teatro partecipato e il teatro vero e proprio?
Mi sembra che ciò che faccio sia proprio teatro. Spesso si dice ‘il teatro sociale è teatro nel teatro’: non lo so, io credo che nel teatro partecipato sei parte integrante di quello che sta accadendo. Il teatro partecipato è una scelta d’amore, quindi è il pubblico che deve scegliere; io faccio uno spettacolo in quel modo, alla fine il pubblico potrebbe non scrivere nessuna poesia (anche chi non la scrive ha partecipato in qualche modo). C’è partecipazione quando tu permetti al pubblico una libera scelta. In “Adesso che hai scelto” l’ho fatto nelle modalità con cui lo faccio nei laboratori, cioè con molta delicatezza, e con la possibilità di restare fuori dalla faccenda. Non so se ci sia una linea di confine o meno, di sicuro spesso il termine partecipato viene confuso con “richiesta d’intervento”, ma non è la stessa cosa.

Hai diviso le storie che racconti in sette gruppi tematici. In quale categoria metteresti la tua di storia e quella del tuo teatro?
Negli ultimi anni il carcere è stato sicuramente il luogo che mi ha permesso delle riflessioni molto profonde sulla mia condizione. Però se ti devo dire il luogo in cui adesso mi sento più rappresentato è quello dove andrò a lavorare per la prima volta lunedì, quando inizierò un progetto con una comunità di psicotici. Non ho mai lavorato in una comunità con persone con psicosi così forti, ed è quello il luogo da cui ora mi sento maggiormente rappresentato: ciò che non conosco.

Come ha reagito il pubblico romano?
Mi sembra che tutto sommato il pubblico della rassegna “A Roma! A Roma!” abbia reagito bene, però non conosco a pieno la realtà romana.

Agli spettatori fai scrivere una poesia. Qual è la poesia che tu porti dentro mettendo in scena questo spettacolo?
La poesia in effetti è un’esperienza profonda, e proprio in quanto esperienza profonda in qualche modo è generatrice anche di angoscia, di oscurità e non di solarità, per cui delle volte tento di sottrarmi al mio essere poetico. La poesia riesco a esprimerla meglio nel momento in cui si intuisce l’amore che ho per queste persone e nel riuscire a mettere questo mio amore in comunione con il pubblico.
Anche il pubblico mi sembra che voglia bene a questi personaggi, perché poi, quando ho finito, vorrebbe sempre chiederti qualcosa di più su di loro. La mia poesia la sento nella condivisione di ciò che faccio, che sono, con gli altri.

Quale ti sembra la situazione del teatro partecipato in Italia?
Per quanto riguarda il teatro sociale a volte ho l’impressione che ci sia una specie di pietismo assistenziale di tipo cattolico, si assume cioè che, essendo convolti in un progetto dei detenuti, sicuramente saranno bravi, ma non è vero. Spesso vedi spettacoli fuori dal carcere, sui palcoscenici, e ti chiedi: ma perché ci sta quello e non un attore? Un attore l’avrebbe fatto meglio, mi avrebbe coinvolto di più.
Questo secondo me è un grosso limite. Capisco la necessità di visibilità, pure io ce l’ho evidentemente, perché visibilità significa riconoscimento, e riconoscimento significa più certezza di lavoro. Mi sembra però che non sia questa la strada entro cui cercare riconoscimenti. Uno dei grossi limiti di questa situazione è il fatto che non ci siano contenitori in cui la visibilità dei lavori sia tutelata. Chiaramente per questo servono risorse economiche, ma più in generale ciò che manca è un riconoscimento totale a questo lavoro.

Quali sono i maestri a cui ti sei ispirato nella scelta del teatro sociale?
I più disparati, persone che nessuno conosce, come il presidente della mia squadra di pallavolo, che aveva undici figli e dieci di questi giocavano a pallavolo: lui è uno dei pochissimi padri che ho conosciuto che si occupava tantissimo dei figli. Ma sono stato molto fortunato perché ho potuto studiare con Norberto Bobbio, con Danilo Dolci, Italo Mancini e in seguito ho continuato a cercare persone che intellettualmente stimavo tantissimo come Odifreddi, Andreoli, Claudio Magris, tutte persone lontane dal teatro, e infatti anche il mio approccio è sicuramente poco accademico. Da Norberto Bobbio ho appreso il rigore nello studio, il parlare per processi e mai per slogan, e lo stare di fronte a un libro come in una forma di ragionamento con l’autore. Da Danilo Dolci ho appreso il sistema di lavoro con le comunità, il modo di coinvolgere e di essere all’interno dei gruppi, come dice Lacan, il “soggetto supposto sapere”.

Nello spettacolo parli di “memoria futura”: qual è la tua, dove continuerà la tua osservazione partecipata?
In parte nel lavoro di cui ti parlavo prima, nel centro di cura per psicotici. In parte nel continuare a portare in giro questo spettacolo. In parte anche in un progetto a cui sto lavorando con l’alta sicurezza femminile a Vigevano, con queste donne che stanno in galera per reati associativi e alle quali davvero credo molto. Ho permesso a queste donne “caino” di esprimere la loro sofferenza, e nel momento in cui glielo permetti diventano meno sfingi, meno incomprensibili, meno marmoree, e questo permette in qualche modo di avvicinarsi con occhi diversi a una realtà che tocca tutti. Se la camorra inizi a capirla, la puoi contrastare meglio. Se invece la contrasti come adesso mi sembra che accada, con l’etichetta di “buoni” e “cattivi”, fai una guerra, ma loro sono più forti perché la guerra la sanno fare. Con questo non voglio assolutamente giustificare o assolvere tutti gli anni di galera che devono fare, credo però che Caino lo devi capire: se non lo capisci non vai da nessuna parte; ti puoi arrabbiare con Caino, lo puoi mandare all’inferno, ma tu non ti salvi.

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