La sala Assoli del Nuovo Teatro Nuovo si trasforma. La gradinata unica che offriva una visuale frontale è divisa in due tribune che si fronteggiano.
Così si presenta “Misfit Like a Clown”, testo realizzato dalla drammaturga e regista Linda Dalisi, tratto liberamente dal capolavoro di Heinrich Böll “Opinioni di un clown”.
Nel corridoio che divide le due tribune il giovane Daniele Fior è un clown che, seduto su un cubo, si strucca, si muove freneticamente, piange, ride, si attorciglia su se stesso.
Gli elementi sono quelli classici della clownerie: bastone, bombetta, ghette, panciotto, un cartello “applause” che lampeggia e uno specchio. A mancare è il tipico naso rosso, simbolo di una ricerca del senso dell’esistenza, unico elemento di colore che apparirà solo alla fine.
Il protagonista sopravvive sostenuto da amari compagni di vita: la malinconia, la solitudine, l’alcool, la sua finta musa che accorre solo a pagamento per riempirgli i vuoti.
Nella Germania del dopoguerra il protagonista è un disertore di ideali e regole di cui invece la sua gente e il suo tempo si nutrono avidamente e ottusamente. Fugge da una famiglia ricca e arida per intraprendere il mestiere di clown, dove il palcoscenico non sembra mai quello dei teatri ma quello dolente della vita. Il vuoto nella sua vita viene riempito da pedine, ironiche classificazioni colorate dei personaggi che si muovono sul tabellone della realtà.
Maria, giovane ragazza di cui è follemente innamorato, si sposa, forse obbligata dalle convenzioni, con un cattolico progressista. La figura della donna si confonde e si personifica nella boccetta d’alcool, inseparabile compagna, che il protagonista bacia, ingurgita, adora, da cui insomma dipende.
L’intero testo della Dalisi è permeato da simboli importanti, frasi significative che incidono profondamente nell’animo dello spettatore.
Ogni convenzione religiosa viene aspramente criticata, anche l’ateismo stesso. Il clown è un clown. Punto. E ha “un cuore in pezzi”, non “un’anima dolente”, come direbbe il fratello sacerdote. E questo non è banale romanticismo da artista squattrinato, ma una riflessione commovente e spesso ironica sulla vita e sulle regole di un “gioco”, che sia quello della Germania negli anni ‘40 o quello contemporaneo.
Il naso rosso, che è sempre stato presente ma nascosto, deforma professionalmente il clown, che riesce a sentire l’“odore delle personalità” al di là della cornetta. Tanti telefoni quanti sono i fili che si intrecciano nella sua e nostra vita, portando l’attore ad una scena importante, in cui lo vedremo avvolgersi nel lunghissimo filo della telefonata al padre. Quel capofamiglia che “nel gioco della vita fa sempre 6 e non perde mai”.
Ed ecco che il cubo su cui il clown si struccava all’inizio si spoglia delle sue pedine e diventa un dado gigante, compagno di scena di un attore dalla profonda e commovente interpretazione che esplode continuamente in intensa attività fisica.
Le scelte registiche accompagnano il lavoro con giochi di luci e musiche che coinvolgono un pubblico attentissimo e partecipe.
Tra cinema muto e cabaret di inizio ‘900, Daniele Fior e Linda Dalisi realizzano una performance intensa ed elegantissima. Da rivedere nelle repliche napoletane di gennaio e maggio.
MISFIT LIKE A CLOWN
Liberamente ispirato a Opinioni di un clown di Heinrich Boll
testo e regia Linda Dalisi
produzione: Nuovo Teatro Nuovo e Fondazione Campania dei Festival/Napoli Teatro Festival Italia
con: Daniele Fior
suono: Franco Visioli
disegno luci: Simone De Angelis
scene e costumi: Graziella Pepe
assistente alla regia: Francesca Giolivo
collaborazione artistica: François Delime
durata: 1h
applausi del pubblico: 2’ 49’’
Visto a Napoli, Nuovo Teatro Nuovo, il 5 dicembre 2010