L’undicesima edizione di Trend, l’ormai tradizionale rassegna dedicata alla drammaturgia britannica e curata da Rodolfo di Giammarco, resiste anche quest’anno alla perenne carenza di sostegno economico da parte delle istituzioni e, ospitata come al solito dal Teatro Belli di Roma, propone cinque testi rappresentativi del quadro contemporaneo della scena d’Oltremanica.
Come in passato, ogni testo è interpretato e messo in scena da una compagnia italiana.
Due le repliche per ogni spettacolo: un cartellone ridotto rispetto agli anni precedenti, ma non per questo meno interessante. Si è iniziato con “A slow air” di David Harrower (21-22 marzo), seguito da “Cock” di Mike Bartlett (per la regia di Silvio Peroni, in scena ieri e stasera), “Questa immensa notte” di Chloe Moss (per la regia di Laura Sicignano; 25-26 marzo), “Misterman” di Enda Walsh (regia Luca Ricci; 27-28 marzo) e “Hymns” di Chris O’Connell (regia Martino D’Amico; 29-30 marzo).
Una piccola nota linguistica, ma molto significativa.
Nelle righe con cui Rodolfo di Giammarco presenta la rassegna c’è una serie di aggettivi simili, per niente scelti a caso: revisionabile, rianalizzabile, rischiarabile, approfondibile, monitorabile. Il suffisso -bile è quello della potenzialità, della possibilità di cambiamento. Insomma, i testi scelti per Trend si propongono come un’analisi delle realtà, cruda ma non appagata di se stessa, critica ma non nichilista.
In effetti, dopo aver visto il primo spettacolo della rassegna, questo indirizzo propositivo può dirsi assolutamente confermato.
Con “A slow air” la scrittura di David Harrower ci racconta la separazione e il silenzio fra due fratelli, Morna e Athol, che non si parlano da quattordici anni. I disagi e l’incomunicabilità della vita familiare sono incarnati dalla loro presenza in scena, simultanea ma all’insegna dell’isolamento, dell’incapacità di guardarsi e comunicare.
Harrower sembra portarsi dietro la durezza del suo precedente “Blackbird”, iniettandola però di un’ironia vivace e quasi tenera, confermando la capacità di tanti scrittori anglosassoni (si pensi ad esempio alla scrittrice Anne Tyler) di parlare del microcosmo domestico attraverso un mix di severità e affetto, in cui l’ironia o la parodia sono solo l’altra faccia di una sostanziale adesione, e tenera conferma, dei valori familiari.
Di “Blackbird” Harrower conferma anche la rara capacità di descrivere la realtà senza pregiudizi, né positivi né negativi: così Joshua, il figlio di Morna, oltre a essere l’elemento che interrompe il silenzio fra Morna e Athol e li introduce a una nuova relazione, è soprattutto il ritratto delle giovani generazioni, senz’altro piene di oscurità (Joshua è ossessionato dall’attentato al Glasgow Airport e dal terrorismo islamico), ma anche ricche di un’intelligenza nuova e inaspettata. Un’intelligenza che si può cogliere solo se, come questo straordinario autore, si osserva il presente con sguardo aperto e senza nostalgie del passato.
La struttura del testo è tutt’altro che originale, ma Harrower sa impugnarla con onestà, ritmo, delicatezza, senza sotterfugi retorici o formali che provino a simulare la novità. Anzi, scegliendo un intreccio così tradizionale, l’autore dimostra come sia possibile giungere a una rappresentazione efficace del presente anche solo applicando uno schema antico a materiale inedito.
L’interiorità dei personaggi emerge pian piano, grazie alla sapienza narrativa dei rispettivi monologhi, che giustappongono frammenti significativi del loro passato e del loro presente. Ci sono dettagli, anche se irrelati e ininfluenti per la trama, che rimangono impressi nella fantasia dello spettatore (il troppo sapone con cui Joshua lava i piatti, ad esempio), e non c’è prova migliore per capire se ci si trova di fronte a una scrittura davvero di qualità.
L’essenzialità scenografica della mise en espace mette in risalto l’alacrità del lavoro fatto da attori e regista sull’interpretazione: la gestualità è tanto essenziale quanto forte ed evocativa, e se l’emozione e l’empatia conquistano il pubblico con una recitazione piana e colloquiale, abbiamo la conferma di quanto sia Nicola Pannelli sia Raffaella Tagliabue siano riusciti a entrare magnificamente nei caratteri di Athol e Morna. In particolare, la cadenza settentrionale di Pannelli rende più vicino e “italiano” il testo, perché il personaggio di Athol si attaglia bene alla figura di un piccolo imprenditore padano.
D’altronde, le premesse per un lavoro di qualità c’erano tutte: sia Giampiero Rappa che Pannelli vengono, e si vede, dalla scuola del Teatro Stabile di Genova, ed entrambi hanno collaborato con un protagonista della nuova drammaturgia italiana come Fausto Paradivino. Ma anche la loro controparte femminile sa dare alla figura di Morna un realistico equilibrio fra insicurezza e rude energia.
Per mera banalità può nascere la separazione. Ma per banalità si può anche avviare il ricongiungimento. Il testo di Harrower considera entrambi i poli del movimento, senza soffermarsi soltanto su quello negativo. Un’ampiezza e un’intensità di sguardo che si può conquistare solo se si sa osservare il mondo con disponibilità, senza nulla perdere in severità e forza critica. Parliamo di uno sguardo che dovrà avere la forza di trascinare il teatro (e non solo) finalmente fuori dal post-moderno.
Seguire Trend può essere un buon modo per capire se, in questo, la drammaturgia britannica sia davvero più avanti di quella italiana, come dopo aver visto “A slow air” si è tentati di pensare.
A slow air
di: David Harrower
traduzione: Gian Maria Cervo e Francesco Salerno
con: Nicola Pannelli e Raffaella Tagliabue
mise en espace a cura di: Giampiero Rappa
durata: 1h 20′
applausi del pubblico: 1′ 50”
Visto a Roma, Teatro Belli, il 21 marzo 2012