Un’imponenza scenica che restituisce fedelmente la grandiosità di un testo “la cui attualità deve apparire accecante alla presente generazione”. Lo scrive Walter Benjamin in “Uomini Tedeschi” nel 1936. Il testo cui si riferisce è “La morte di Danton” di Georg Büchner, ora messo in scena da Mario Martone come nuova produzione dello Stabile di Torino, in programma al Teatro Carignano fino al 28 febbraio e poi al Piccolo di Milano fino al 13 marzo.
Un kolossal che abbonda di espedienti scenografici e registici che attingono dal cinematografico e che si fa monumentale per composizione e dimensioni del cast, pur restando delicato, rigoroso ed elegantemente incisivo.
Il teatro di Büchner, di cui Einaudi pubblica, in occasione del debutto, la nuova traduzione di Anita Raja de “La morte di Danton”, possiede d’altronde una forza letteraria e filosofica che non può che offrirsi come punto di partenza privilegiato per una messa in scena tanto epica quanto moderna.
Protagonista è un Danton senza la passione e la fede politica dei primi anni repubblicani ed ormai lontano dal manicheismo giacobino di Robespierre. Ministro della Giustizia a partire dalla fine del 1792, Georges Jacques Danton fu ghigliottinato due anni più tardi su pressione del Comitato di Salute Pubblica per comportamenti “controrivoluzionari”, tradotti da Büchner in un atteggiamento disilluso che trova nei piaceri l’unica soluzione ai limiti della conoscenza (delle cose e degli uomini): “Conoscersi? Dovremmo scoperchiarci il cranio e strapparci vicendevolmente i pensieri dalle fibre del cervello”.
Analogamente alla sfiducia di Danton si pone quella dell’autore nei confronti della propria epoca: “I poliziotti sono stati la mia musa”, dichiara Büchner a propostito dell’opera.
Giovanissimo docente di anatomia comparata e fervente militante politico nella Germania frammentata del periodo della Restaurazione, Büchner si rifugia nella casa paterna di Darmstadt, in fuga per le proprie attività liberali, ritenute sovversive, e scrive in poco più di 30 giorni “La morte di Danton”.
Personale riflessione dell’autore sulla Rivoluzione tradita, “La morte di Danton” sfocia nell’affilatura deterministica di una conclusione che anticipa nettamente le riflessioni novecentesche del germanista Furio Jesi raccolte in “Spartakus. Simbologia della rivolta”.
Se in quest’ultima l’uomo cerca una sospensione del tempo storico, catartica esperienza del sé, la rivoluzione è invece inevitabilmente immersa nella Storia e non può che collimare con la condizione umana: “Dovremmo toglierci le maschere una buona volta, e allora […] vedremmo dappertutto quell’eterna testa d’idiota, unica e multipla. […] Dormire, digerire, fabbricare bambini, ecco quel che tutti fanno; il resto sono soltanto variazioni sullo stesso tema, di diverse tonalità” afferma Camille Desmoulins (interpretato da Denis Fasolo) agli inizi di un intenso monologo.
E’ Büchner a parlare?
L’attualità accecante di cui scrive Benjamin e che rende Büchner pienamente contemporaneo è ben giocata da Martone. La pesantezza dei tendaggi rossi che aprono e chiudono i cambi scena strutturano la narrazione su più piani, offrendosi come “sipari della Storia” dai quali Danton (Giuseppe Battiston), Robespierre (Paolo Pierobon), Camille, Hérault-Séchelles (Massimiliano Speziani), Lacroix (Alfonso Santagata) e Philippeau (Roberto de Francesco) entrano ed escono così come i loro corpi di uomini qualunque dagli abiti di rappresentanza della Repubblica.
Accompagna l’apertura e la chiusura dei tendaggi un rumore di lama molata che evoca, non troppo sommessamente, il chiudersi netto della ghigliottina. Sarà la stessa ghigliottina, patibolo simbolico di vite consegnate così all’eternità del mito, a farsi croce della disperazione di Lucile (Irene Petris), moglie di Camille condannato, durante un ultimo soliloquio che la vede pallida (per riflesso del vestito bianco) e prosciugata (per sottigliezza della figura) al centro del palcoscenico, frontale e in piedi, con le braccia tese verso l’altro.
Con simile cura per le allegorie, la rilettura di Martone trasforma l’intera sala del Carignano nel Tribunale della Rivoluzione da cui Robespierre urla la sua arringa in un’emozionante interpretazione di Pierobon: i commenti della folla si amplificano con provenienza del suono a 360° e i personaggi büchneriani dibattono, si rincorrono, attraversano la platea in coerenza con l’impianto corale che contraddistingue l’intera messa in scena.
Si è immersi e pateticamente coinvolti: se il primo tempo si chiude sul canto della marsigliese da parte di un coro di cui non si vedono le teste, il testo si chiude sul dissacrante “Viva il re!” di Lucile, afferrata dalle guardie “in nome della Repubblica”.
Dopo il confronto con la figura di Giacomo Leopardi con le “Operette Morali” del 2011 e “Il giovane favoloso” del 2014, d’altronde, le tematiche de “La morte di Danton” non possono che essere familiari a Martone, come lui stesso afferma nella prefazione alla pubblicazione Einaudi: “Per Büchner, come per Leopardi (“La Ginestra” è di un anno dopo), la Storia non è che una macchina celibe, anche se le ragioni per scatenare la rivoluzione sono sempre tutte vive e presenti”.
Resta, tuttavia, e si ripete ciclicamente, l’errore ideologico che le fa fallire, ovvero la pretesa separazione tra chi fa e chi dovrebbe “seguire” una rivoluzione, il consolidarsi degli assetti di potere che annullano l’immediatezza fenomenologica delle rivolte.
In questo Büchner è modernissimo sin dalle prime pagine del testo:
Danton: “E chi dunque realizzerà tutte queste belle cose?”
Camille: “Noi e la gente onesta”
Danton: “Questa “e” che sta in mezzo è una parola lunga e ci tiene un po’ lontani l’uno dall’altro; il tratto è lungo e l’onesta perde il fiato prima di arrivare a noi”.
La regia di Martone, il cast attoriale, i costumi, le scelte del disegno luci e del suono si coordinano e si tessono con bravura a restituire il senso d’urgenza di un’opera scritta nella prima metà dell’Ottocento, ma drammaticamente attuale.
Si potrebbe allora concludere con le parole di un passante, estratte dalla “promenade” dell’atto secondo e che aprono il successivo monologo di Camille (quasi precursore di riflessioni deriddiane) sulla vita, la Storia e la rappresentazione: “Eh, la terra è una crosta sottile; penso sempre che ci potrei cadere dentro, dove c’è un buco del genere. Bisogna procedere con prudenza, si potrebbe sprofondare. Ma vada a teatro, glielo consiglio!”.
MORTE DI DANTON
di Georg Büchner
traduzione Anita Raja
regia e scene Mario Martone
con (in ordine alfabetico) Giuseppe Battiston, Fausto Cabra, Giovanni Calcagno, Michelangelo Dalisi, Roberto De Francesco, Francesco Di Leva, Pietro Faiella, Denis Fasolo, Gianluigi Fogacci, Iaia Forte, Paolo Graziosi, Ernesto Mahieux, Carmine Paternoster, Irene Petris, Paolo Pierobon, Mario Pirrello, Alfonso Santagata, Massimiliano Speziani, Luciana Zazzera, Roberto Zibetti e con Matteo Baiardi, Vittorio Camarota, Christian Di Filippo, Claudia Gambino, Giusy Emanuela Iannone, Camilla Nigro, Gloria Restuccia, Marcello Spinetta, Beatrice Vecchione
costumi Ursula Patzak
luci Pasquale Mari
suono Hubert Westkemper
registi collaboratori Alfonso Santagata e Paola Rota
scenografo collaboratore Gianni Murru
produzione: Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale
durata: 3h con intervallo
Visto a Torino, Teatro Carignano, il 16 febraio 2016