Motel. L’Inland Empire del Gruppo Nanou

Motel - seconda stanza (photo: Laura Arlotti)
Motel – seconda stanza (photo: Laura Arlotti)

“L’impero della mente” compariva come traduzione di “Inland Empire”, il più recente film di David Lynch, il cui titolo giocava anche con un doppio senso (Inland Empire è anche un sobborgo di Los Angeles). Traduzione magari sbilenca, ma in qualche modo anche piena d’ispirazione. Necessaria, per altri versi, a spiegare un’opera doppia, tripla, quadrupla, una sorta di millefoglie della percezione in cui perdersi è facile, un mare in cui “navigar è dolce”.

Da un parallelo filmico comincia questa riflessione su “Motel” del Gruppo Nanou, quello che, a nostro parere, è a tuttora lo spettacolo più interessante, tra le nuove proposte di Teatri di Vetro 4.

È prerogativa del teatro visuale affidare la propria potenza alla suggestione. “To suggest” in inglese significa proprio “suggerire”. Ed è in questa accezione che ci piace usare la parola suggestione, come un suggerimento. Un suggerimento emotivo, che muove dall’istanza profonda di un teatro tutto sommato ermetico per raggiungere i nervi della percezione attaccandoli da più fronti.
Ermetica anche questa frase? Sì, ma solo perché l’ “impero” Nanou è un regno interno, il loro “Motel” (trilogia giunta oggi al suo secondo passo) è il non-luogo sperimentale in cui certe sinapsi visive fanno cortocircuito, creando una vera e propria poesia della visione.

La prima stanza è raffreddata glacialmente dalla sola presenza di un tavolo e due sedie. I due performer (anche autori) Marco Valerio Amico e Rhuena Bracci abitano questo ghiacciaio con opprimente stasi. Inseguono fastidiose mosche che stanno solo nella loro testa, li vediamo combattere con qualcosa di invisibile e mettono in scena ogni possibilità in uno spazio, quello dell’albergo a ore, che funziona come il bar dell’aeroporto, in cui tutti passano e nessuno si ferma. Nessuno si guarda. Nessuno si ricorda. Ecco, questa è l’unica chiarezza che i Nanou si lasciano custodita nella prima stanza: là sul palco nessuno ricorda niente. La coscienza dei movimenti, lo slancio che occorre a compierli arrivano sempre con un attimo di ritardo, in tempo per vanificare lo sforzo, ché tutto è già passato. Ermetico, sì. Cerebrale, ci torneremo. Disperante, ma solo in funzione del passo successivo.

Durante una pausa, mentre fuori un epico temporale trattiene il pubblico sotto i neon del portico centrale, qualcosa accade alla scena e, rientrando, sono piovute macchie di colore. Ora ci sono divani e poltrone rosso sangue, pavimento verde prato, specchi, abat-jour. La seconda è una stanza d’azione, di relazioni complesse, di pugni visivi. Nanou gioca con i colori del sogno, con la loro velocità.
I due attori tendono una corda di movimenti rigorosi, dividono a mente lo spazio in percorsi di una precisione disarmante, si consumano atti di carne pura, dallo strip tease alla desolante pacca sulla spalla. Ci sono schemi di danza nel silenzio dei controluce, c’è il passaggio inquietante di Alessandro Cafiso in livrea e cilindro, enigmatico personaggio liminale, custode dell’impero. Feriscono le orecchie i bei suoni di Roberto Rettura, la luce millimetrica di Fabio Sajiz ne perfeziona il filo, cancellando letteralmente la visione dei volti e lasciandoci lo sguardo puntato a colori e movimenti. E la scena (di Antonio Rinaldi) è un parco giochi angosciante che suona ovattato, come il suono dei tacchi in un sogno da cui non riusciamo a svegliarci.

Un sogno, sì. Un piccolo delirio del cervello, un ictus della percezione. Scivoliamo in un ritmo assolutamente unico, abbracciamo nuove durate, pettiniamo con costanza i nervi che spesso vorrebbero saltare. Il Gruppo Nanou ci inchioda a una sedia elettrica che libera scariche quando meno ce lo aspettiamo.
Il risultato è una delle operazioni più intellettuali che si siano viste di recente. A volte troppo. Se nel ripetersi di certi movimenti e relazioni c’è un metodo, non sempre arriva. Questo lamentano in molti, uscendo dalla sala nell’ormai consueta tempesta di pioggia romana. In molti hanno stampato sul viso il solco di chi non perdona passi così ermetici, vicoli così ciechi. Non tutti gli animi, insomma, reagiscono bene a questo prepotente attentato che tuttavia non gioca sporco, dichiara il proprio essere estremo e che, una volta tanto, non è condotto con la violenza della parola, ma con la punta di un rigore e di una cifra visiva che sono un come un rasoio: recidono ma non fanno a pezzi, tagliano ma non smembrano, feriscono ma non dilaniano. E noi sanguiniamo piano, in attesa di entrare nella terza stanza.

MOTEL [Faccende Personali] – prima e seconda stanza
di: Marco Valerio Amico, Rhuena Bracci
interpreti: Marco Valerio Amico, Rhuena Bracci, Alessandro Cafiso
produzione: Nanou ass. cult. e Fondo Fare Anticorpi (prima stanza), Nanou ass. cult. e Fondazione Pontedera Teatro, co-produzione ZTL-Pro, in collaborazione con Palladium Università Roma Tre – Romaeuropa (seconda stanza). Realizzate con il sostegno di: Centrale Fies, L’Arboreto – Teatro Dimora di Mondaino, Ravenna Teatro, Regione Emilia-Romagna – Assessorato alla Cultura, Comune di Ravenna – Assessorato alla Cultura, Teatro Fondamenta Nuove, Associazione Cantieri, Città di Ebla
scene: Antonio Rinaldi
disegno luci: Fabio Sajiz
concept feat.: Robert Rebotti {jacklamotta}
suono: Roberto Rettura
durata: 1h 40’
applausi del pubblico: 3’

Visto a Roma, Teatro Palladium, il 14 maggio 2010
Festival Teatri di Vetro

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