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Nel cuore di Napoli. Mario Martone e gli altri

Anche Mario Martone al museo Madre (photo: Amedeo Benestante)

Anche Mario Martone 'dal vivo' al museo Madre (photo: Amedeo Benestante)

Napoli ha un cuore di mamma. Non è una scoperta: se un napoletano conquista l’anima della sua gente, è fatta. Potrà poi tentare di allontanarsene, uscire dalla fama locale, farsene una nazionale, ma resterà sempre di qui. Non sarà dimenticato, quand’anche lui stesso dimenticasse.

Sul palco della Galleria Toledo, nell’ambito del Napoli Teatro Festival Italia 2018, va in scena Nando Paone (ne riparleremo approfonditamente altrove) nella riduzione scenica del “Diario di un pazzo” di Gogol’, e l’affetto del pubblico è palpabile, fisico, ancor prima che si spengano le luci.
È già un ritorno a casa, un ricordarsi dei film e degli spettacoli del passato come fossero marachelle o belle sorprese, poesie recitate solo per i parenti alle feste di famiglia: un nipote che si fa vivo e si vuole riabbracciare – come sei cresciuto! -, sentendone il sacrosanto diritto.

L’artista napoletano che non è innanzitutto napoletano, che ha scelto o si è trovato a essere altro, magari senza polemiche, il cuore di Napoli è così grande che lo accoglie con un movimento di aggiramento sottile e sorprendente: al presunto figliol prodigo non è richiesto altro che il regalo di una sfumatura d’accento, una parola sola, anche meno. Anche niente.

Questo NTFI, al di là dell’apertura internazionale, rifà il gesto aperto di quell’abbraccio domestico, dischiuso per la gente di Napoli dalla direzione artistica di Ruggero Cappuccio. Non è inutile dirlo: funziona. Le sale teatrali, a luglio quasi invivibili, sono gremite, e non raramente anche le gallerie torride del respiro affannato delle platee si aprono, per un pubblico che non smette di affluire.
Accanto ai ritorni, ciascuno con un diverso clinamen, di Paone, del casertano (romano) Giancarlo Sepe, del Silvio Orlando dal percorso personale e indipendente, cade con un po’ di ritardo l’abbraccio grosso della ricorrenza, che conta trent’anni, ai Teatri Uniti di Mario Martone, Antonio Neiwiller e Toni Servillo.

Per Martone una grande sala è dedicata al museo d’arte contemporanea Donna Regina (il più familiare MADRE), fino al 3 settembre. Si tratta di una vera istallazione curata da Gianluca Riccio, e composta di una piattaforma con trentasei sedie girevoli al centro di un’ampia stanza. Alle quattro pareti si proiettano spezzoni di film, spettacoli, performance, regie d’opera. Con le cuffie consegnate all’ingresso e collegabili alle sedute, si possono ascoltare alternativamente i sonori dei quattro schermi, contraddistinti da led colorati.
E così, dal “Giovane Favoloso” si passa alla “Carmen” di Bizet, ai “Rasoi” con Servillo, al Leopardi in prosa delle “Operette Morali” per lo Stabile torinese, al Risorgimento di “Noi credevamo”, allo “Chénier” di ritorno alla Scala per il Sant’Ambrogio 2018, ce ne andiamo a spasso per una multiforme carriera e per una quantità di titoli tale da lasciare confusi e quasi increduli.

Nella saletta attigua, sui muri, data per data, ne è ripercorso in sorte di Annales martoniani tutto l’arco creativo, dal 1979, il tempo della performance “Segni di vita” alla Galleria Lucio Amelio, a oggi – l’ultimo film, in lavorazione, uscirà in autunno – attraversando esperienze come quella alla direzione del Teatro di Roma che hanno lasciato il segno. E non è una frase fatta: il segno è tangibile come i due capannoni industriali in mattoni del Teatro India, ex fabbrica della Mira Lanza, sul lungotevere che oggi porta il nome di Vittorio Gassman.

Poi un filo invisibile, teso – attraversando a perfetto volo Santa Chiara e il Gesù Nuovo, l’università, i cantieri interminabili (e incomprensibili al passante) di piazza Municipio, il San Carlo d’oro e piazza Plebiscito col colonnato come un luna park di led ubriachi – collega il MADRE con la sala Dorica di Palazzo Reale, un ampio camerone dedicato ai trent’anni di Teatri Uniti (curatela di Maria Savarese, mostra allestita fino al 2 ottobre).
Con una struttura canonica di alternanza fra locandine, documenti e frammenti audio (oltre alla non inaspettata saletta video) si racconta l’esperienza della compagnia/produzione napoletana più attiva di fine millennio.
Alcune chicche: l’articolo del Mattino che segna la nascita della compagnia dalla fusione tra Falso Movimento, Teatro Studio di Caserta e Teatro dei Mutamenti, l’interminabile elenco date della tournée della “Trilogia” goldoniana, vista da più di 200.000 spettatori, i ritratti artistici di figure che sono nate o hanno gravitato attorno all’astro dei Teatri Uniti (Licia Maglietta, Iaia Forte, Mimmo Paladino, che ha dato peraltro la sua impronta grafica a tutto il festival…), fino alla caustica noterella di Claudio Plazzotta su Umberto Eco, che (ri)sorge per applaudire «sulla fiducia» la Trilogia al Piccolo di Milano, dove il sonno l’aveva colto e accompagnato per gran parte della messinscena.

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