Terza edizione per il festival diretto da Davide Sacco e Francesco Montanari nella cittadina umbra
Prima di recarci a Narni per la terza edizione del festival Narni Città Teatro, il nome della cittadina umbra, nella nostra memoria, era legato solo alla bellissima statua equestre di Donatello nella piazza del Santo di Padova che raffigura appunto il celebre condottiero Erasmo da Narni detto il Gattamelata.
Nei tre giorni in cui siamo stati immersi nel festival, diretto da Davide Sacco e Francesco Montanari, aiutati nella loro fatica da uno stuolo di collaboratori veramente ammirevole, Narni ci ha invece svelato tutta la sua bellezza, visitata da cima a fondo per merito di alcuni fra i 32 appuntamenti, ospitati in ogni possibile spazio della incantevole cittadina umbra, diventata, come esplicita benissimo il nome del festival, una vera e propria Città Teatro.
Il festival non ha ospitato solo spettacoli, ma anche una retrospettiva di creazioni di ombre per ragazzi di Teatro Giocovita, e poi incontri, presentazioni di libri, studi e performance particolarissime, persino a cavallo. E dulcis in fundo, allo spuntar del sole, ecco anche un monologo di Sabina Guzzanti, incontrata il giorno dopo al bar, posizionato su una terrazza aggettata sulla valle che ha anche accolto una interessante lezione spettacolo su Abramo dell’attore Stefano Sabelli.
Da parte nostra, che siamo poco mattinieri, dopo aver salito decine di gradini, inebriati pian piano da un sapido odore di fumo, ci siamo arrampicati invece sino al Teatro di Palazzo, un immenso spazio vuoto, decaduto e decadente, pieno di calcinacci e di rovine.
E’ qui che, tra una nebbia a volte volutamente opprimente, ci è stata restituito, in forma davvero inusuale e foriera di nuovi riverberi emotivi, il celeberrimo testo del drammaturgo magrebino Bernard Marie Koltès “Nella solitudine dei campi di cotone” del 1986, qui nella traduzione di Ferdinando Bruni per un progetto creato da Mario Martone.
La performance è un’installazione sonora per due soli spettatori, riallestita da Fabrizio Arcuri, con un intervento di Teho Teardo per il paesaggio sonoro. Le voci inconfondibili di Claudio Amendola e Carlo Cecchi ci restituiscono un lungo dialogo, l’incontro solitario e casuale tra un uomo che vende qualcosa (il Dealer) e qualcuno che potrebbe comprare qualcosa (il Cliente) di cui non comprendiamo fino in fondo la consistenza.
La vista e l’udito si gettano a capofitto, senza alcuna distrazione, magari anche sbirciando il compagno teatrale che ci sta vicino, in un ingorgo di macerie e parole che in qualche modo si abbracciano, cercando di dare un senso ad un incontro misterioso e dai mille sottotesti.
Dopo aver partecipato allo studio, tra italiano e norvegese, di “Qualcuno verrà”, un testo di Jon Fosse, allestito in un piccolo giardino, veniamo invitati per uno spettacolo nella sala consiliare del Comune, a testimoniare l’amore condiviso di tutta la comunità di Narni per il teatro. Qui Francesco Brandi, ne “La fine della Grecia”, ci narra in prima persona la vicenda dolce e amara di Giacomo, uno sconfitto dalla vita che vede sempre trionfare le persone che gli stanno accanto, e che un giorno, in pieno lockdown, decide di rapire il virologo Marco Taralli, suo vicino di casa che l’arrivo della pandemia ha trasformato in una delle persone più note e ascoltate d’Italia. Ma presto Giacomo si accorgerà di come Taralli sia alla fine molto simile a lui. Un racconto paradossale che Brandi riesce a restituire in modo tenero e accogliente.
Ma a Narni c’è anche un teatro, il Manini, che dopo una difficile ricerca abbiamo scoperto essere dedicato al poeta ottocentesco Giuseppe Manini, che fu inaugurato la sera del 3 maggio 1856, festa del Patrono, “con grande concorso di pubblico, fra cui molti forestieri venuti dai paesi vicini ed anche da Roma”. L’occasione era la messa in scena de “La Traviata”, che la censura cambiò con il nome di “Violetta”. E proprio al Manini abbiamo visto tre spettacoli che più diversi tra loro non potrebbero essere.
“Il nero” di Occhisulmondo ci è parso ora – dopo un periodo di rodaggio – più centrato nel riproporre, in una scena asciutta di composita e studiata eleganza, la tragedia scespiriana di Otello ambientata nella Parigi della strage del Bataclan.
Otello, Iago, Desdemona, Cassio, Emilia e Roderigo, senza essere nominati, caratterizzati solo da maschere, sono un gruppo di persone, una classe dirigente che si ritrova bloccata all’interno di un teatro in cui si sta celebrando un matrimonio segreto, mentre fuori dilaga una violenza difficile da contenere. In loro riconosciamo tutti i vizi, virtù e debolezze dei rispettivi personaggi, su cui aleggia il maligno volere di Jago che si consuma nell’odio per lo straniero, che porteranno il Nero all’autoesclusione.
Assai stimolante e partecipato, nel secondo giorno del festival, “Scritti sull’Arte”, tratto da Karl Marx che, nella platea liberata dalle sedie, in una specie di festa rivoluzionaria reinventata da Davide Sacco, tra ballo, teatro e musica, ha visto protagonista assoluta la band dei 99 Posse con la la voce di Simona Boo, qui con il felice apporto di Federica Rosellini, l’Amleto latelliano, e Daniele Russo, attore e regista del Teatro Bellini di Napoli.
Si è così creato un mix rivoluzionario, nel vero senso della parola, di vari generi, che ha visto tornare sul palco, dopo trent’anni, i 99 Posse, per la prima volta in un luogo per loro non consueto ma come sempre capitanati da O’ Zulù, all’anagrafe Luca Persico, voce e leader della band.
L’ultimo spettacolo visto al Manini ci ha offerto un nuovo incontro con il teatro di Liv Ferracchiati attraverso “Uno spettacolo di fantascienza” prodotto da Marche Teatro, CSS e Teatro Metastasio.
Ferracchiati è artista che ben conosciamo fin dagli esordi e di cui abbiamo molto apprezzato il suo precedente lavoro, il cechoviano “Platonov“.
Attraverso una meditata autoreferenzialità, legata alla questione di genere che sempre caratterizza i suoi lavori, lo spettacolo si fa amare per la sagace scrittura, effervescente e di impronta surreale, che – partendo proprio dalla generale questione identitaria in perenne evoluzione – tenta di dare risposta alle varie possibilità di scongiurare una catastrofe climatica sempre più imminente.
Lo spettacolo vive in un continuo gioco di teatro nel teatro, dove in quello “drammatico” abitano tre personaggi su un rompighiaccio alla deriva diretto al Polo Sud, mentre nel “post drammatico” vediamo Liv Ferracchiati dialogare con la platea in collaborazione con Petra Valentini e un inedito Andrea Cosentino.
“Uno spettacolo di fantascienza” diventa così una sottile metafora “della nostra incapacità di immaginare un futuro, confusi come siamo in un presente che facciamo fatica a comprendere”.
Tanto che anche i poveri trichechi che, ad un certo punto, invaderanno la scena non potranno dare nessuna soluzione alla problematica proposta.
Di tutto quello che abbiamo visto a Narni il coinvolgimento maggiore ci è venuto, senza se e senza ma, per “Every brilliant thing” su testo di Duncan MacMillian, per la regia di Fabrizio Arcuri e la cristallina e naturale interpretazione di Filippo Nigro, una creazione prodotta dal CSS di Udine e Sardegna Teatro: un coinvolgimento emotivo che, siamo sicuri, sia avvenuto anche per il pubblico che – non solo letteralmente – ha abbracciato l’attore nel bellissimo chiostro di Sant’Agostino. Un abbraccio vero e solidale partito dall’esperienza che via via è stata raccontata in scena in modo naturale, senza mai artificio alcuno, tanto da sembrare appartenere allo stesso Nigro: quella di un bambino che nel corso di tutta la sua esistenza imbastisce una lista di cose per cui vale la pena vivere, per far capire alla madre in perenne depressione come la vita valga la pena di essere vissuta per tutte le migliaia di circostanze e occasioni che ci dona.
L’attore, sempre in modo discreto e partecipativo, coinvolge gli spettatori, a cui all’inizio viene dato un foglietto con un numero e una indicazione appartenuta alla lista, facendola leggere ad alta voce e facendo interpretare al pubblico anche i vari personaggi che il protagonista narrato da MacMillian trova sulla sua strada: il padre taciturno che comunica solo con la musica, la psicologa della madre che diventerà anche la sua, la compagna che diventerà sua moglie e che poi lo lascerà.
Tutto avviene con una lievità naturale, impastando l’emotività del pubblico con tutti i sentori che realmente la vita ci dona, sia quelli che la lista ci suggerisce, sia gli altri che la quotidianità elargisce.