Protagonisti, sul palco del Teatro India di Roma fino al 29 maggio, Federica Rosellini e Lino Musella
Di “Nella solitudine dei campi di cotone” (1987) di Bernard-Marie Koltès si può dir tutto, tranne che la trama. Giusto questo: due in scena, un Dealer e un Cliente, si incontrano in un luogo che risponde a un mondo incredibilmente angusto, un angolo di strada, forse newyorkese; comunque un punto derivato precisamente da uno scontro si direbbe bidimensionale, in cui le due traiettorie, soggette a un irrisolto scarto, collidono. Uno vende, ma non si sa che cosa, né è disposto a sciorinare la sua mercanzia; uno compra o comprerebbe.
Il parlato è fitto, spesso un succedersi di lunghi monologhi, più raramente, come nel finale, un botta e risposta, tutto attorno ai temi del desiderio consapevole e non, del dare (e darsi) come forma altrettanto inflessibile di desiderio, della purezza e dell’impurità, del possesso. Il piano su cui gioca l’intero testo è quello di un simbolismo strenuo, sorretto dai fili rigidissimi di un dettato letterario, aristocratico nell’accensione continua di quella che sembra un’inesausta allegoria.
È noto come il primo interprete del lavoro, diretto al debutto da Patrice Chéreau, vivo l’autore, fosse nero (Isaac de Bankolé), e come anzi Koltès avesse esplicitamente dato indicazioni in tal senso. I suoi viaggi in Africa, in Nicaragua e Guatemala negli anni ’70, insieme all’iscrizione al Partito Comunista Francese, avevano arricchito la sua prospettiva politica di una riflessione aperta ai rapporti tra l’Occidente e i paesi colonizzati.
La versione in scena al Teatro India di Roma fino a domenica, con la regia di Andrea De Rosa e sul palco Federica Rosellini e Lino Musella, debuttata al Napoli Teatro Festival di due anni fa, mette da parte questa indicazione, e anzi prevede un’attrice per il ruolo del Dealer. Sottopone inoltre il complesso meccanismo simbolico del testo – di una simbologia capace di prestarsi a riconversioni diverse – al tema del teatro, alla sua vuotezza in seguito alla prima ondata Covid, a quello, dice il regista, “dell’arte in genere”. Così la venditrice è un’attrice o un personaggio abbandonato, dimenticato sul palco, vestito di una crinolina quasi da Adriana Lecouvreur; il compratore un passante, in un qualsiasi completo jeans. Non sfugge il particolare cromatismo dei due costumi, e delle giacche associate, che verranno sul finale scambiate dai due personaggi. In effetti nel testo potrebbe leggersi anche il tema dell’offerta (del dono?), contrastante con quello del commercio, costituito dalla giacca che il Dealer porgerebbe al Cliente, ottenendone un rifiuto.
L’idea di De Rosa dichiara innanzitutto un posizionamento teorico, un’idea di lavoro registico “esterno” (impostazione di tempo spazio costumi), per il quale, come sottolinea il critico Marcantonio Lucidi, ci si potrebbe aspettare, perché no, in una prossima edizione, l’ambientazione in un supermercato.
Ma c’è dell’altro, perché quest’operazione, senz’altro legittima, è perdente se si valuta quanto si perde lungo la strada che si allontana dalle intenzioni iniziali di Koltès. La riduzione al tema teatrale, e per di più al tema del “teatro vuoto”, spinge infatti a barattare per esso quel serbatoio tematico e concettuale ben più vasto del rapporto Primo/Terzo Mondo, subito dichiarato (almeno nel 1987) dall’identità del Dealer.
Il risultato, dal punto di vista semantico, è che questo testo complesso, greve e ardito insieme, la cui densità avrebbe potuto trovare innumerevoli ragioni di scioglimento, di polarizzazione, di attualizzazione attingendo da quel fertile serbatoio, risulta azzoppato, spesso privo del suo riferimento, e si ritrova quasi a parlarsi addosso, come se fosse colpevole di un sovrappiù di parole che non trovano agganci.
È forse proprio questa scelta perdente – accompagnata da quella, parallela, di quasi immobilità dei corpi degli attori, a cui vengono in soccorso soltanto le musiche, tutti brani per tastiera di J.S. Bach – che gli interpreti si industriano di colmare con strumenti pertinenti alla loro arte, quasi assolutizzando a una smagliante prova astratta l’incarnazione delle parole.
I due attori forse più notevoli della nuova generazione brillano in questo lavoro di un innegabile, forsennato talento – che però lavora sul vuoto, lavora a legittimare e a colorare il vuoto, quel vuoto creato dalla frequente mancanza di riferimenti tangibili che il testo orientato verso la “tematica teatrale” si ritrova a mostrare.
Le loro voci si fanno travolgenti ed emozionanti, i volumi e gli attacchi sono saldati con maestria, le agogiche costruiscono flussi indiscutibili: belli. Che sia anche questo parte del lavoro registico qualcuno potrà dirlo (e non è escluso che lo sia), ma è la resa tecnica di per sé a essere emozionante, non l’applicazione di quel virtuosismo a un’idea forte, capace di far vivere un testo.
Non era un puntiglio, insomma, quello di Koltès che, a leggere le parole di Arnaud Maïsetti, si “infuriò” quando Chéreau nell’88 inserì sé stesso nel ruolo del Dealer. L’elisione di un corpo nero da questo testo è il primo anello di una catena che è certamente libertà registica, interpretativa, messa alla prova di un testo, ma è soprattutto problematico disinnesco di un preciso messaggio politico.
Nella solitudine dei campi di cotone
di Bernard-Marie Koltès
traduzione di Anna Barbera
regia Andrea De Rosa
con Federica Rosellini e Lino Musella
suono GUP Alcaro
luci Pasquale Mari
produzione Compagnia Umberto Orsini
foto di Andrea Macchia
durata: 1 h 25′
applausi del pubblico: 2′
Visto a Roma, Teatro India, il 20 maggio 2022