Ballano nella Plaza de Armas di Querétaro, Messico. Da una cassa su un lato parte la musica, che dà il senso al gruppo. Più o meno giovani sorridono mentre esultano in quest’atto liberatorio e festoso. Intorno, nugoli sparsi di passanti con lo smartphone lo fissano nella memoria virtuale, di lì a poco presumibilmente condiviso sulla rete.
Essere presenti, esclamare vita, alzare il pugno e dichiarare guerra all’oblio, a quella pennellata di sbadataggine e violenza che ha cancellato chi c’era e ora, all’improvviso, non c’è più.
Su YouTube si vedono scorrere immagini di ragazze e ragazzi, bellissimi nella loro naturale indignazione, che incarnano con consapevole dignità. Se ne fregano dell’estetica che il mondo occidentale ha fatto propria, rimanendone schiavo. Se ne fregano se il loro corpo deborda, mentre sui loro toraci galleggiano, proiettate, le immagini di volti “desaparecidos”.
Fieri del proprio essere vivi e capaci ancora di alzare la voce, dicono decisi “Presente”. Cadono, risalgono, in un moto perpetuo e circolare tale da far pensare a un vortice temporale, che sempre più veloce farà partorire dal suo interno i 43 di Ayotzinapa, riportandoli a questo mondo, a questo piano della realtà. Presente.
Se fossimo nel migliore dei mondi possibili.
Invece non lo siamo, e il video di “Megalopolis#43”, il progetto che Instabili Vaganti ha iniziato proprio a Città del Messico con studenti messicani, è pronto a sbattercelo in faccia, per non dimenticare.
Delle vicende dei 43 di Ayotzinapa, di quello che è successo, si era già parlato su Klp trattando di uno spettacolo indimenticabile come “El Año de Ricardo” di Alonso Barrera, dall’opera di Angélica Liddell.
Per conoscere invece il progetto di Instabili Vaganti, del loro impegno politico e teatrale, vi lasciamo a quest’intervista. Come imperativo categorico: essere Presenti.
Come siete arrivati in Messico?
Ci siamo arrivati come ‘maestri di teatro’, invitati a condurre un workshop per gli studenti delle accademie di teatro nell’ambito dell’ottavo Incontro internazionale delle accademie nazionali di teatro a Città del Messico. Durante l’iniziativa, promossa ogni anno dall’Unesco, le scuole di teatro iberoamericane si incontrano presso l’Escuela Nacional de Arte Teatral, che per una settimana diventa luogo di spettacoli, seminari, dibattiti, conferenze. In quell’occasione abbiamo potuto lavorare con studenti provenienti da vari stati del Messico ma anche da Argentina, Cile e Brasile.
Quand’è iniziato questo percorso?
Era il 2011 e non immaginavamo che saremmo tornati a Città del Messico per tre anni consecutivi. È proprio dalle sue suggestioni, dai suoi colori accesi e dall’entusiasmo dei nostri giovani allievi messicani, che si è sviluppato l’anno seguente il progetto Megalopolis, una ricerca sulla relazione fra tradizione e contemporaneità, interculturalità e globalizzazione.
I primi frutti?
Nell’ottobre 2012 abbiamo diretto il primo step del progetto in uno dei contesti più all’avanguardia nel panorama contemporaneo messicano, la Unidad de Vinculacion Artistica del Centro cultural universitario Tlatelolco.
Abbiamo lavorato con un gruppo di studenti per creare una performance site-specific nella Piazza delle Tre Culture, luogo simbolo del massacro del Tlatelolco del 2 ottobre 1968, quando più di 300 persone sono state uccise dall’esercito. Soprattutto in virtù di quest’esperienza siamo rimasti sconvolti quando gli stessi studenti che hanno partecipato alla performance ci hanno poi informato sui fatti del 26 settembre dello scorso anno. Ci è sembrato che la storia si ripetesse: sei ragazzi uccisi e 43 scomparsi per mano della polizia dello stato di Iguala.
Come sentite il vostro rapporto col Messico?
Il Messico è un Paese che portiamo costantemente dentro di noi e nel nostro lavoro, e mai come ora, in questi giorni di ricerca e creazione continua per “Megalopolis#43”, stiamo cercando di diffondere il più possibile la vicenda di Ayotzinapa per rendere giustizia ai 43 studenti, diventati icone di tutti i desaparecidos messicani.
Nel 2013 avevamo lavorato sui temi del progetto con un gruppo di oltre 30 giovani attori. Al termine di cinque giorni di workshop abbiamo presentato al pubblico accademico dell’Encuentro des Escuelas Nacionales de Teatro una performance.
L’esperienza condivisa è stata così forte che alcuni studenti hanno deciso di continuare a lavorare con noi in Italia e uno di loro, a distanza di un mese soltanto, ci ha raggiunto a Bologna. Quello stesso anno abbiamo diretto un workshop nello stato più povero del Messico, Oaxaca, dove è iniziato per noi un rapporto di collaborazione con una compagnia di danza con cui molto presto, a novembre, realizzeremo una co-produzione.
Quali sono i temi cardine di Megalopolis?
Le dinamiche generate dal processo di globalizzazione che, all’interno della società contemporanea, stanno provocando cambiamenti enormi. In particolare la diffusione dei mezzi di comunicazione di massa sta generando un nuovo sistema comunicativo, sovranazionale, globalizzato, universale. Si tratta di un argomento molto vasto che trova nelle gradi città, nelle megalopoli appunto, un campione di indagine privilegiato. In questo macro-argomento si è inserito il progetto di spettacolo “Megalopolis#43”.
Quando avete deciso di virarlo a #43?
Quando siamo venuti a sapere che il 26 settembre 2014 ad Ayotzinapa erano spariti quei 43 studenti e che in tutto il Messico c’era stata una reazione fortissima. Ci siamo subito messi in contatto con gli studenti e i colleghi messicani con i quali avevamo lavorato in passato. Ci siamo sentiti vicini; siamo rimasti in continuo contatto per creare delle “Azioni Globali”, azioni performative da presentare nei teatri, nelle piazze ed essere diffuse attraverso il web. Un modo per sostenere la causa di Ayotzinapa, per diffondere superando la censura governativa.
Come hanno reagito le autorità messicane alle vostre prese di posizione?
Quando abbiamo realizzato la prima performance nella Piazza delle Tre Culture, nel 2012, con gli studenti dell’Università Nazionale Autonoma del Messico eravamo in un ambiente privilegiato, visto che Città del Messico gode di una certa libertà. La piazza era quella dell’eccidio del Tlatelolco, un luogo molto simbolico. Mentre lavoravamo lì con un’azione di gruppo (una ventina di studenti occupava la piazza gridando il proprio “No!” al narco-governo, alla corruzione, alle sparizioni forzate) si avvicinarono le autorità chiedendo spiegazioni, ma non fecero in tempo a bloccare la performance, che venne realizzata come un’incursione lampo nella piazza.
Cos’è cambiato dopo la vicenda dei 43 di Iguala?
C’è stato un cambio sostanziale da parte del governo. L’atteggiamento precedente era quello di lasciare una certa libertà di manifestazione, ma dopo i grandi cortei che hanno visto la presenza massiccia dei messicani l’atteggiamento è cambiato; sono cominciate le detenzioni arbitrarie, le minacce, le repressioni violente… Noi non abbiamo avuto al momento ripercussioni dirette e speriamo di non averne e di poter tornare in Messico a novembre, quando continueremo a lavorare al progetto. Ci preoccupano forse di più le reazioni in Italia, dove sembra sempre esserci un’enorme libertà ma poi di fatto, in maniera indiretta, vengono ostacolati spettacoli che prendono delle posizioni, cosa accaduta già con “Made in Ilva”.
Qual è secondo voi la posizione degli organi di stampa messicani?
Sono molto controllati dal governo, così come i social network. L’hashtag #yamecansé (“mi sono stancato”), per esempio, che rappresenta il dissenso al governo di Peña Nieto, è continuamente attaccato da esperti informatici del governo che, associandolo a Spam, ne causano l’eliminazione da parte di Twitter. In risposta a questi attacchi viene creato un hashtag nuovo ogni volta, associandogli un numero 1, 2, 3… al momento siamo già a #yamecansé43.
Siete in contatto con altri artisti messicani? E come vi siete relazionati con loro?
Certo, il progetto si è sviluppato grazie a questo. Molti nostri colleghi ci hanno inviato materiali, testi, immagini, informazioni; abbiamo discusso con loro via mail e skype. Abbiamo risposto con diverse azioni alle chiamate fatte dagli artisti per ricordare la scomparsa dei 43 ragazzi. E infine abbiamo deciso di creare una struttura più articolata, uno spettacolo che potesse veicolare il messaggio in Italia e nel mondo. Il progetto è ancora aperto e prevede nuove collaborazioni. In questo momento stiamo lavorando con una danzatrice italiana, Marta Tabacco, appena tornata dal Messico e che ha vissuto e lavorato lì per cinque anni, e con un danzatore messicano, Hector Padilla Isunza, che è venuto in Italia per lavorare al progetto. Con loro siamo stati in residenza al Teatro Akropolis di Genova a fine aprile.
Come state programmando il vostro ritorno in Messico?
Abbiamo in progetto di tornare a novembre con una tournée più articolata, in cui presenteremo due lavori tra i più rappresentativi della nostra compagnia (“Made in Ilva” e “Stracci della memoria”) in quattro stati: Distretto Federale, Xalapa, Oaxaca, Tamaulipas. E continueremo a condurre workshop per gli studenti della Universidad Nacional Autonoma de Mexico e dell’Universidad Veracruzana, oltre a concentrarci su una fase di coproduzione con la compagnia di danza Tierra Independiente.
Nonostante tutto ciò facciamo molta fatica a trovare in Italia le risorse necessarie a supportare un progetto così grande e ambizioso. Quaranta giorni di tournée in quattro stati messicani sono davvero tanti per una compagnia indipendente come la nostra, che può contare solo sulle proprie forze e competenze…
Ma “Megalopolis#43” tra gli spettacoli che presenterete in Messico non ci sarà…
Sarebbe stato per noi molto importante, ma in alcuni contesti in cui saremo ospitati, tra cui città come Tampico e Veracruz, risulterebbe molto rischioso. Mai come in questi ultimi anni il nostro lavoro è diventato soggetto a pressioni, censure, ostacoli da parte di istituzioni e singoli personaggi politici. Dall’Ilva di Taranto ai 43 desaparecidos di Ayotzinapa la strada da percorrere si fa sempre più ardua, ma noi resisteremo, perché il teatro è un atto per affermare la propria identità, innescare quel cambiamento che diventa possibile almeno nell’attimo di vita condivisa tra performer e spettatore.
Quali parallelismi trovate tra l’esperienza culturale e politica messicana e quella italiana?
Il fatto che siamo stati in scena a Genova subito dopo la notizia che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha condannato l’Italia per gli atti di tortura compiuti dalla Polizia nell’assalto alla scuola Diaz al G8 fa riflettere…
Strategia del terrore, agenti infiltrati nelle manifestazioni per alimentare violenza e giustificare l’intervento della forza, manipolare l’informazione, intercettazioni, omertà… non è diverso da quanto accaduto a Città del Messico.
Quali sono invece le differenze sostanziali?
Quello che ci colpisce e ci riempie di energia quando siamo in Messico è la vitalità e lo spirito con cui la gente reagisce alle cose. L’arte, la cultura, il teatro sono ancora strumenti attraverso cui comunicare, sublimare, trasformare, superare momenti tragici. È questa la mancanza che invece sentiamo nella vita culturale del nostro Paese.
Instabili Vaganti, lo dice il nome che si sono scelti, percorrono molte strade. E dopo il Messico, l’Iran e la tappa dello scorso anno in Tunisia, ha di recente intrapreso un nuovo viaggio, questa volta in Corea del Sud, con il progetto “Stracci della memoria”, che porteranno in autunno anche in Messico.
Il progetto è finalizzato alla creazione di una performance, un primo step della co-produzione italo-coreana “East meets West”, presentata a Seul ad un pubblico di studenti, operatori, critici e ricercatori. Una fase di lavoro supportata dall’International Bilingual Festival di Incheon in collaborazione con ERT – Emilia Romagna Teatro Fondazione.
In scena Anna Dora Dorno e Nicola Pianzola assieme alla ricercatrice e performer Sun Young Park per investigare il rapporto fra tradizioni orientali e occidentali e la loro attualizzazione nella società contemporanea.
In una Corea gelida, con temperature dai -1 ai -10 gradi, la compagnia ha condotto la sua ricerca investigando danze orientali, canti e azioni rituali, archetipi necessari ad una comunicazione sovralinguistica e multiculturale basata sul ritmo.
Vi lasciamo alle immagini di questa nuova avventura da uno dei più affascinanti paesi d’Oriente.